Panem et Circenses, due italiani uniscono cibo e arte a Berlino

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La Brassica Oleracea è un’opera d’arte, ma difficilmente la vedrete esposta in un museo. Se state pensando ad una installazione di qualche artista contemporaneo, infatti, siete fuori strada. Stiamo parlando del broccolo (o cavolo) romanesco, vero e proprio capolavoro della natura, la cui struttura segue la sezione aurea, teorizzata da Fibonacci circa nove secoli fa.
Arte e natura, ma soprattutto arte e cibo. Un binomio che Ludovico Pensato ed Alessandra Ivul, italo-berlinesi ed ideatori del progetto Panem et Circenses, conoscono bene. Di cosa si tratta? Se volessimo riassumerlo in poche parole, diremmo di un progetto che indaga e sperimenta interazioni fra arte e cibo. Declinato fisicamente come un’associazione culturale, in attività a cavallo tra l’Italia e la Germania.

I due ideatori del progetto, già blogger di lunga data su Il Mitte, ce lo presentano in prima persona. Cominciando dalle radici (le loro). E proseguendo con alcune delle esperienze maturate nei primi mesi trascorsi in terra tedesca, dove hanno avuto la possibilità di esprimere il loro talento. Perché, come diceva il filosofo Ludwig Feuerbach, “l’uomo è ciò che mangia”.

Panem et Circenses poggia le proprie radici su un background culturale ben definito. Come ha inciso la vostra storia personale nella creazione del progetto?
Siamo due umanisti (una laurea in Filosofia ed una in Scienze della Comunicazione, un master in raccolta fondi e progettazione e un altro in storia e cultura dell’alimentazione) che si sono incontrati in un’associazione culturale che organizzava eventi di arte pubblica a carattere sostenibile. Abbiamo alle spalle famiglie “gustologhe” e “cibomaniache” che ci hanno educato e “contagiato” in tal senso fin da giovanissimi. Panem et Circenses è nato come una naturale evoluzione di un interesse complesso e di un approccio multidsciplinare al cibo.

A Bologna avevate dato vita ad uno spazio di coworking che, per modalità e imprinting, era già marcatamente “berlinese”, in anticipo rispetto ai tempi. Cosa vi portate dietro di quella esperienza e cosa vi ha insegnato?
Sono stati due anni intensi e di grande importanza a livello di formazione e crescita professionale. L’associazione culturale La Pillola400 è stato il primo spazio di co-working in Italia nel 2008, abbiamo fatto da apri-pista e ciò ha fatto sì che non avessimo riferimenti sul territorio cui guardare. C’erano però Berlino, I Paesi nordici e gli Stati Uniti a illuminare la strada. La condivisione è il valore più importante che abbiamo fatto nostro, è un processo delicato e difficile, non sempre attuabile, ma nelle condizioni giuste una risorsa grandiosa che dovrebbe sempre essere vagliata come prima possibilità: è sostenibile economicamente ed ecologicamente – il nostro spazio era arredato esclusivamente con mobilio recuperato e/o autocostruito – ed è sociale, in carne ed ossa!

Com’è il vostro rapporto con il cibo?
Diciamo piuttosto con il “mangiare”. É un classico rapporto amoroso fatto di passione, intimità, conoscenza, delusione, sorpresa, contesto, ricordi, rabbia, aspettativa, evoluzione, sesso, divertimento, malinconia, creatività… con la differenza che questo è necessariamente un rapporto “finché morte non vi separi”. Il “cibo” in sé è il contenuto cui tutto questo ruota attorno, è un oggetto smisurato fatto di materie prime, da un lato, e preparazioni e ricette, dall’altro. Troppa roba. Le domande più semplici sono sempre quelle più complicate a cui rispondere. Alla fine però, a tavola ci piace tanto mangiare e bere bene.

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In questo senso, che cosa ne pensate dell’offerta culinaria di Berlino?
Mangiare fuori è una figata. Imbiss (più o meno malvagi) a parte, l’offerta è amplissima, come in ogni metropoli che si rispetti si trovano cucine etniche da ogni parte del Mondo che hanno prezzi così bassi che se ti capita di spendere 15 euro a testa ti sembra di aver esagerato – una nota sui ristoranti italiani: occhio se sui menu a bacheca c’è scritto “PENNE AL ARABITA”. Esiste poi una ristorazione “stellata” della quale non possiamo parlare perché, purtroppo, non ne abbiamo esperienza diretta, ma è interessante il fatto che Berlino, sempre di più, possa offrire anche questa. Al contrario fare la spesa è un’esperienza spesso triste, a meno che non si abbia la capacità economica di comprare solo nelle catene di alto livello.

Tra le peculiarità del progetto di Panem c’è sicuramente la Food Translation. Di che cosa si tratta?
La definizione che ne diamo è “la volontà di tradurre l’opera di un artista attraverso il linguaggio del cibo”. Il cibo, quest’entità sopra descritta come un complesso intreccio di elementi naturali e culturali, è per noi un vero e proprio linguaggio dotato di una grammatica e una sintassi, da usare come strumento vivo in relazione ad opere d’arte prodotte da terzi. Non siamo “food designer” né chef di professione, attingiamo liberamente a riferimenti ad ampio raggio che incanaliamo in una nostra metodologia precisa. Avevamo bisogno di un’espressione che definisse il nostro modo di lavorare e divenisse per noi identitaria, “Food Translation” incarna questa necessità. Abbiamo anche coniato un acronimo che sintetizza il risultato del nostro approccio: E.G.O. cioè edible, genuine, original.

Tra i progetti che avete già realizzato, di quale siete particolarmente orgogliosi e perché?
Panem è ancora giovane e vive sulle ali dell’entusiasmo per la novità. Non riusciamo a dartene uno solo, facendo un grande sforzo possiamo arrivare a tre: innanzitutto “Food Translation n°1” per l’inaugurazione della mostra di Barbara Fragogna “My Cage Is Your Palace Project” prima esibizione della rassegna estiva “Buongiorno e Arrivederci” da lei stessa curata. Perché è stato il primo e perché è stato il progetto dove il rapporto con l’artista è stato più diretto, forte e profondo.
In secondo luogo “(C2H4)n”, per il progetto SEME#2 di CORPO 6 galerie (sembra uno scherzo ma si chiama così!). Perché è stato il progetto più interattivo e partecipativo che abbiamo realizzato ad oggi. Il coinvolgimento attivo del pubblico è un elemento interessante che indagheremo sempre più spesso. Infine “REFoodGEES” per lo spettacolo di Theater am Tisch “We are refugees”. Perché è stato un lavoro fortemente incentrato sulle emozioni e perché nell’occasione abbiamo creato una bomba gastronomica, la lacrima di Parmigiano!


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Il futuro prossimo di Panem et Circenses avrà una “doppia cittadinanza”. Come mai questa scelta?
Panem et Circenses è nato con la valigia, nel senso che fin da subito la nostra visione è stata quella di non legarci ad un luogo fisico ma rimanere leggeri in modo da poterci muovere agilmente. Berlino è un campo base ideale per stringere contatti non necessariamente locali, anzi. É una  “vetrina” fantastica, la quantità di stimoli e la facilità e l’immediatezza con cui nascono collaborazioni e progetti è davvero singolare. D’altro canto l’approccio complesso di Panem ha trovato sponda tendenzialmente più con realtà italiane e internazionali che con progetti tedeschi. Con molti soggetti si sono aperti dialoghi interessanti che avranno seguito nel futuro prossimo, alcuni di questi ci riporteranno in Italia, altri, speriamo, più lontano. In questo senso più che una “doppia cittadinanza” ci piacerebbe definire Panem come “apolide” perché la cultura gastronomica è un fatto universale.

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