Interviste

Dario Brunori: «Io a Berlino, un ritorno al futuro»

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Dario Brunori (via)

di Valerio Bassan

Sono sulle tracce di quel mattacchione di Dario Brunori da diversi anni: ricordo il suo primo concerto milanese, in un minuscolo locale chiamato Atomic Bar: un centinaio di persone schiacciate tra il bancone e il palco (o almeno, la superficie di pavimento adibita a tale scopo), ansiose di ascoltare e cantare con lui le canzoni del disco d’esordio “Vol.1”, successivamente premiato con la Targa Tenco.

Riuscire a far cantare a squarciagola un nutrito gruppo di milanesi di estati calabresi, scorribande adolescenziali, falò sulla spiaggia – per di più, a novembre inoltrato – non è impresa facile. Lui ci riuscì allora, proseguendo in questo piccolo miracolo anche con i due dischi successivi: “Poveri Cristi”, uscito nel 2011, e “Il cammino di Santiago in taxi”, che ha visto la luce quest’anno.

Per il cantautore di Guardia Piemontese le cose sono molto cambiate da allora, e i piccoli bar hanno fatto spazio a palcoscenici più grandi. Oggi, ecco una nuova soddisfazione da aggiungere al curriculum: Brunori SAS si accinge a salpare per un tour europeo che, il prossimo 27 novembre, toccherà anche il Grüner Salon di Berlino (data per cui vi regaliamo anche due biglietti).

Quale migliore occasione per chiedergli conto di un po’ di questioni in sospeso? Non potevo certo lasciarmela sfuggire.

Dario, il disco si chiama “Il Cammino di Santiago in Taxi”, questo mini tour europeo “Il Cammino di Santiago in Interrail”. L’unica certezza è che suonerai a Berlino e di questo siamo molto contenti. A che punto del cammino siamo? E soprattutto, arriverai al Grüner Salon in treno?
Arriverò in carrozza vestito da Amish per dare al tutto un sapore vintage, oppure potrei optare per un bel nudo a cavallo senza sella, cosa che farebbe la gioia di grandi e piccini. Come puoi notare, a livello di cammino, siamo al punto di non ritorno.

In “Italian Dandy” canti: «Amami come se fossimo ancora in quel bar di Berlino a fumare Pall Mall». Forza, è il momento di sputare il rospo: quel bar esiste davvero? Se sì, vogliamo il nome. In alternativa, un nome inventato ma adeguatamente poetico.
Italian Dandy è stata scritta nel 2008 a seguito di un viaggio spazio-temporale a bordo della mia DeLorean, viaggio che mi aveva portato esattamente a Berlino il 27 novembre 2014. Per cui tutto quel che ho scritto accadrà realmente fra qualche giorno, e scopriremo quindi insieme di quale bar si tratta e soprattutto perché riprenderò a fumare visto che ho smesso da circa un mese.

Torniamo indietro di otto anni, ai tempi dei Blume: la tua prima band aveva un nome tedesco. Hai qualche radice teutonica che ci hai tenuto nascosta per tutto questo tempo?
Esatto. Mio nonno Wolf Sas di Sassonia era di un paese vicino Dresda e aveva un allevamento di ovini. Era un tipico pastore tedesco: si accaniva spesso e volentieri con gli altri e sopratutto non andava disturbato durante il sonno. Lasciata la pastorizia si trasferì in Italia lavorando per anni alla Digos: i suoi vecchi colleghi dicono che non si facesse affatto spaventare dagli ossi duri. Poi purtroppo ebbe una rogna con la giustizia e sparì con la coda fra le gambe senza lasciare traccia. Brutta storia di cui preferirei non parlare.

Ascoltando in sequenza i tre dischi firmati Brunori SAS, si nota una sostanziale evoluzione a livello di suoni e di arrangiamenti, così come di atmosfere. Da Vol.1 a Vol. 3, credi che il tuo approccio al songwriting sia cambiato, oppure è rimasto quello dei primi tempi?
Credo che il mio modo di scrivere si sia sempre adattato alla mia personale “evoluzione” di essere umano. Intendo dire che in sostanza io cerco sempre di fotografare quel che mi accade dentro e fuori in un determinato momento della mia vita, quasi che senta la necessità di avere un mio tumblr in canzoni. È ovvio che magari nel tempo ho imparato ad usare un po’ meglio la mia macchina fotografica, ho cambiato alcune lenti e magari ho scelto i miei soggetti con più attenzione. Ma di fondo, nel corso dei disch, penso che la mia rimanga una scrittura molto rapida ed essenziale, votata al sentimento senza però disdegnare un minimo di riflessione intellettuale.

A Berlino c’è il Funkhaus, un complesso che ospitava un tempo gli studi radiofonici della Germania Est e che, oggi, accoglie alcuni degli studi di registrazione più ambiti della città, grazie anche alla sua struttura e ai materiali che ricoprono le sue pareti. Il tuo ultimo disco, invece, è stato registrato all’interno di un convento calabrese. In che modo il luogo in cui i suoni vengono messi su nastro incide sul risultato finale dell’opera? Nel tuo caso, influisce anche sul mood delle canzoni?
Assolutamente. Il luogo entra nella registrazione, da un lato perché produce un suono di riflesso che viene catturato dai microfoni, dall’altro perché influsice emotivamente sui musicisti e sulla loro esecuzione. Inoltre suonare in un luogo che, seppur da non credente, comunque nel tuo cuore rimane “religioso”, riesce a donare alla registrazione una sacralità che spesso lo studio, i suoi ritmi, i suoi ambienti non riescono a restituire. Nel nostro specifico caso penso che sia stato essenziale per rendere i pezzi più intimi, quelli basati su piano e voce o chitarra e voce, in un certo modo. Se ad esempio ascolti l’ultima traccia, “Sol come sono sol”, te ne rendi conto immediatamente.

Quando un italiano emigra all’estero, spesso mette in valigia alcune delle atmosfere e delle sensazioni raccontate dalle tue canzoni, espressione nostalgica e romantica di un immaginario d’altri tempi. Qual è il tuo segreto nello scrivere liriche così dirette e potenti nella loro semplicità? Ti affidi molto ai ricordi, oppure lavori principalmente di fantasia?
È un mix. Di solito parto da un ricordo reale, per modo dire, visto che sono convinto che molti dei nostri ricordi siano edulcorati dal tempo e non siano esattamente veritieri. Da quel ricordo o suggestione poi cerco di sviluppare una storia, anzi è meglio dire che la storia si sviluppa da sola nella mia testa. Questa è la mia fortuna: parto da una frase legata ad una suggestione e poi le parole fluiscono mentre suono. Ovviamente non tutto il testo, ma buona parte della faccenda va così. Per dire, Guardia ‘82 è nata dall’aver trovato una vecchia fotografia di me da bambino sulla spiaggia con una mia amichetta dell’epoca. Mentre suonavo ossessivamente gli accordi della strofa mi è venuto fuori l’incipit “La spiaggia di Guardia rovente era piente di gente…” da lì in poi il resto è venuto fuori quasi in modo miracoloso, senza pensarci troppo ma solo guardando questa pellicola che si svolgeva nella mia testa.

Tutte le info sul concerto berlinese di Dario Brunori qui

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