ARTivismo: dove l’arte incontra la resistenza. Intervista ad Anna Krenz

Anna Krenz è un’architetta, artista e attivista polacca residente a Berlino dal 2003. La incontriamo poco prima della sua partecipazione alla conferenza “Shadows of Illiberalism: Resisting the Radical Right”, organizzata dal Disruption Network Lab, che si terrà dal 13 al 15 giugno al Kunstquartier Bethanien di Berlino. Krenz parteciperà al panel dedicato ad “Arte, Attivismo e l’Ascesa dell’Illiberalismo in Ungheria, Polonia e Slovacchia”, portando una prospettiva controculturale e una profonda conoscenza della realtà est-europea. Fondatrice del collettivo femminista Dziewuchy Berlin e dello studio di design Sinus_3, Anna Krenz ha sviluppato un approccio interdisciplinare che combina formazione architettonica, pratica artistica e impegno politico transnazionale. Le sue “ARTivist interventions” (interventi di ARTivismo), tra cui Global Scream (2019) e Instant Theatre (2020), rappresentano tentativi sperimentali di ridefinizione dei confini tra espressione estetica e protesta politica, operando come strumenti di resistenza culturale nell’ambito delle crescenti tensioni illiberali nell’Europa centro-orientale. La sua posizione di operatrice culturale nella diaspora polacca in Germania offre una prospettiva privilegiata per l’analisi delle dinamiche di resistenza che trascendono i confini nazionali tradizionali.
Nel tuo lavoro fai spesso riferimento all’ARTtivismo. Che cosa intendi con questo concetto?
L’artivismo è una combinazione tra l’essere artista ed essere attivista. È un termine che definisce perfettamente quello che faccio, ma a volte penso sia anche importante saper dividere l’arte e l’attivismo. Io, come attivista, faccio anche tutti quei lavori “noiosi” che l’attivismo richiede, come scrivere manifesti, organizzare manifestazioni, scrivere comunicati stampa. Poi però metto anche l’arte, nell’attivismo, perché per me è una componente importante, perché io sono un’artista. ARTivismo è una parola difficile da definire, è un miscuglio di cose.
Per esempio: noi polacchi abbiamo avuto una storia molto strana. La Polonia come Paese è stata divisa, è scomparsa dalla mappa per molti anni. Poi c’è stata la Seconda Guerra Mondiale e tutto quello che è successo dopo. Per oltre 100 anni, il popolo polacco ha potuto trovare la propria identità o mantenere l’identità nazionale attraverso la cultura, attraverso l’arte. È una cosa che abbiamo sempre saputo fare. Non è un caso che sia la resistenza che l’arte siano così importanti in Polonia e io seguo questa tradizione. Per me, l’arte e la cultura sono sempre stati strumenti importanti per parlare di cose difficili, di questioni politiche con un linguaggio particolare.
Utilizzando immagini, testi o video si crea un linguaggio che permette di informare anche su questioni complesse o che sono tabù.
In un lavoro che è in parte artistico e in parte fatto di attivismo, come si possono creare spazi pubblici di dissenso che sfidino i confini convenzionali tra espressione estetica e azione politica, specialmente in un momento in cui l’espressione artistica potrebbe essere censurata?
Quando faccio arte politica, io cerco sempre di veicolare i messaggi più forti in modo sarcastico o ironico, cerco sempre di fare arte che non sia ovvia. Per esempio, non ritrarrei Jaroslaw Kaczynski, del partito Diritto e Giustizia, impiccato o ghigliottinato. Sarebbe un modo troppo semplificato per descrivere un personaggio “malefico”.
Piuttosto, cerco sempre di raccontare una storia attraverso metafore o simboli, non mi interessano gli attacchi diretti, caricaturali, non fanno per me. Anche perché un attacco così grafico e frontale verrebbe criticato nella sua forma, attirerebbe critiche all’artista, ma non farebbe riflettere le persone sul contenuto.
A me piace mostrare le cose in modo meno diretto, più concettuale, così le persone possono riflettere sull’argomento di cui si parla. Per esempio, la settimana scorsa, per le elezioni ho realizzato delle opere grafiche molto semplici e alla gente sono piaciute perché ognuno poteva ritrovarci i propri pensieri, ognuno poteva interpretarli e trovarci dentro uno spazio per sé. E la destra non poteva criticarli perché non erano attacchi diretti.
Cosa ci dici invece del Teatro Istantaneo?
Da tanti anni organizzo eventi e manifestazioni, ma volevo qualcosa di diverso dal solito formato da “talk show”, qualcosa di più teatrale, così è nato quello che io chiamo “Instant Theatre” (Teatro Istantaneo). Significa che, quando organizzo una manifestazione, creo anche una specie di sceneggiatura teatrale estemporanea o, per meglio dire, uno storyboard. Sono cose non pianificate, veloci, di solito fatte la sera prima, perché nell’attivismo non c’è mai tempo per pianificare le cose né per pagare qualcuno che reciti un ruolo. Quindi disegno una sceneggiatura, uno storyboard per una piccola performance.
Realizzo i costumi molto velocemente, ovviamente. E poi, prima della manifestazione, trovo delle persone e chiedo loro cosa se vogliono partecipare a un’azione performativa durante la manifestazione. Mostro loro i disegni e i gesti da compiere, che sono sempre molto facili.
Noto che di solito le persone, i miei compagni attivisti sono felici di poter fare qualcosa di fisico, qualcosa di artistico, simbolico. E così sono felice anche io ed è felice la gente che viene alla manifestazione, perché vive un’esperienza diversa. Penso che questo spazio performativo fisico sia interessante, anche perché quando coinvolgiamo direttamente i nostri corpi in una protesta, in qualcosa di politico, sentiamo di avere più potere, ci si sente parte di un’esperienza forte. Io faccio sempre in modo da poter avere una scenografia e un sipario per le mie performance di teatro istantaneo.

Per esempio, c’è stata una manifestazione il 28 settembre 2020. Era la Giornata internazionale per l’aborto sicuro e mi è venuta un’idea su come realizzare una performance, che aveva bisogno di uno sfondo grandioso. Siamo riusciti a ottenere il permesso per organizzare la manifestazione a Porta di Brandeburgo: lo sfondo perfetto per mettere in scena la protesta delle donne polacche, era un’immagine davvero potente.
Infine c’è il tema della censura: non si può censurare qualcosa che non c’è. Ecco perché faccio arte con messaggi indiretti, sarcastici, perché non possa essere censurata, perché non voglio perdere tempo a pensare alla censura, a discutere con la destra. Voglio fare arte di cui la gente possa godere e che faccia riflettere.
Capita mai che gli altri attivisti non capiscano le provocazioni quando sono troppo sottili o non capiscano i messaggi quando non sono abbastanza diretti?
Può succedere, perché l’attivismo è una cosa complicata. Ti porta via tanto tempo, energia, lavoro, denaro, salute. Le persone tendono a diventare molto sensibili, perché l’attivismo è di solito una lotta che combatti, ma non vinci, perché è davvero difficile vincere qualcosa.
A volte però capita. Con la protesta delle donne in nero nel 2016, siamo riuscite a fermare una pessima legge. È stato un piccolo successo, che comunque un mese dopo era già svanito. Per questo a volte gli attivisti diventano ipersensibili. I liberali, ovviamente, la destra si offende comunque, si offende anche guardando un tramonto.
L’arte di tradizione liberale in Polonia, come anche in altri luoghi, la ritengo migliore rispetto alla produzione della destra, che di solito è composta da meme e da brutte immagini e tende a essere molto diretta, scadente e piuttosto stupida.
A proposito di attivismo e di diritti delle donne. Parliamo del collettivo Dziewuchy Berlin: è nato come collettivo femminista transnazionale che rappresenta le donne polacche in Germania. Come percepisci la differenza tra il femminismo in questi due Paesi?
A causa dei problemi politici che abbiamo avuto in Polonia, all’improvviso ci siamo ritrovati con un che ha smantellato la democrazia e ha limitato i diritti delle donne in modo drastico.
Quindi abbiamo avuto attiviste e femministe che hanno reagito a una situazione drammatica. In Germania, invece, non c’è stato un fenomeno così repentino. Certo, ci sono dei problemi, ma non c’è stata una situazione improvvisa in cui il governo, il Bundestag, da un giorno all’altro ha limitato i diritti delle donne.
Ecco perché penso che il movimento femminista attivista tedesco stia procedendo a un ritmo diverso. In Polonia è come se dovesse far fronte un enorme incendio che infuria, in Germania, invece, l’incendio è più piccolo ma dura più a lungo.
Penso che un buon esempio sia proprio il diritto l’aborto, che in entrambi i Paesi è un problema ma in modo diverso In Germania c’è il famoso paragrafo, il 218, che risale a oltre 150 anni fa e vale ancora. In Polonia, dopo la guerra, la legge era simile a quella della DDR, più liberale in materia di aborto. Negli anni ’90, però, entrambi i Paesi hanno adottato leggi più restrittive – la Germania perché in materia di aborto ha adottato la legge dell’ovest. In Polonia, però negli ultimi 10 anni, il peggioramento è stato davvero drammatico, quindi il nostro attivismo è stato più dinamico perché abbiamo dovuto reagire a ciò che stava facendo il governo. Ma il problema è lo stesso: vogliamo l’aborto legale e sicuro.
Il tuo attivismo ha abbracciato diversi aspetti. C’è il femminismo, c’è la produzione culturale, c’è l’attivismo ecologico. Come vedi il rapporto tra le questioni ambientali, le strutture patriarcali e l’ascesa dei governi illiberali in europa?
Dal punto di vista del femminismo io sono sicuramente un’attivista, mentre l’ecologia è proprio il mio lavoro, perché da oltre 20 anni lavoro per una ONG danese nel settore delle energie rinnovabili. Quindi non posso dire che il mio ecologismo sia solo attivismo. Un po’ lo è, ovviamente, mi impegno anche per altre cause ambientali.
Penso che dipenda dalla prospettiva. Se partiamo dai diritti delle donne, come attivista noto che, in questo mondo così polarizzato, in quasi ogni Paese esiste una destra che è contraria ai diritti delle donne. E quello stesso tipo di destra non vede di buon occhio l’ecologia, è contro il Green Deal in Europa, per esempio, ma a favore dell’energia atomica, che è una cosa pericolosa, in un mondo come il nostro.
Penso che c’entri molto il tipo di propaganda che consumano, che li porta ad avercela con le donne, con la comunità queer, con l’ambientalismo e a incarnare una specie di ideale militare, patriarcale, violento. Generalizzando, è un tipo di pensiero che spesso è anche associato all’appartenenza religiosa. Per esempio, in Polonia, molti elettori del partito conservatore credono in Jaroslaw Kaczynski in modo quasi religioso, come se non potesse sbagliare mai. Non usano argomenti logici, non ascoltano.
In che modo questo si lega al tuo lavoro nel campo delle energie rinnovabili?
Se guardo le cose dalla mia prospettiva professionale, in cui cerco di promuovere le fonti di energia rinnovabile decentralizzate, che sono un sistema diverso da quello “top-down” delle centrali atomiche o carbone. Noi puntiamo a soluzioni decentrate, su piccola scala. E ho la sensazione che questa prospettiva più locale sia anche più femminile in un certo senso, perché tradizionalmente sono state le donne a farsi carico degli ambienti domestici, i quali hanno bisogno di calore, di acqua, di energia. E non è un caso che ci sia una prevalenza femminile nelle lotte ecologiste. Ci sono anche moltissimi uomini che se ne occupano, ovviamente, ma anche lì vedo una differenza. Una prospettiva maschile vede le grandi turbine eoliche come un business, io preferisco piccole opzioni decentralizzate e le vedo come energia.
Lo si è visto anche due anni fa alla Biennale di Architettura di Venezia, dove sono stati esposti molti progetti diversi provenienti da tutto il mondo, progetti indigeni, locali, in cui le comunità locali, spesso le donne, cercavano di costruire questa architettura “vernacolare” locale e di procurarsi energia. Si parlava di fornelli solari, di piccole installazioni. E c’era un enorme contrasto con i grandi uomini, i grandi investimenti, come quelli che fanno in Arabia Saudita, dove nel deserto stanno costruendo un’enorme città a specchio. Io ci vedo come il riflesso di un enorme ego maschile e credo che questo contrasto sia visibile in moltissimi luoghi, in diversi ambiti della vita, nell’architettura, nell’approvvigionamento energetico, nei diritti delle donne. Si tratta, alla fine di modi diversi di investire le risorse, perché l’energia è potere.
E se ci guardiamo intorno, cosa fanno Putin o Trump? vogliono controllare enormi centrali elettriche. Come Putin, che ha costruito una centrale atomica in Ungheria e non è stato certo un regalo. Certo, ci ha guadagnato, ma può anche controllare la fornitura di energia. Alcuni anni fa, quando vendeva gas alla Bulgaria, ha avuto una discussione con il governo bulgaro e ha chiuso il gas perché aveva il potere farlo. Lo stesso è successo col gasdotto Nord Stream verso la Germania.
Per questo sono fortemente contraria alle centrali nucleari, perché sono facili da manipolare, da controllare e da spegnere. E sono pericolose, specialmente quando ci sono dei pazzi al potere. In Polonia c’è un piano per costruire una centrale atomica nel nord del Paese. E nel villaggio locale, di solito sono le donne a lottare e a protestare contro questa centrale.
Non solo le donne, ovviamente, perché in Polonia il femminismo non è solo delle donne. È anche maschile, è di tutti i generi, ma gli uomini sono una parte importante. In Germania, non credo. Alcuni gruppi femministi attivisti di Berlino possono essere davvero radicali e anche io non sempre mi ci ritrovo: è come se fossi sempre “troppo” qualcosa e “troppo poco” qualcos’altro. E non lo capisco, perché a me non interessa il genere, mi interessa che siamo uniti e combattiamo per i diritti delle donne o per i diritti queer e tutti dovrebbero poter fare parte di questa lotta.