Non solo Berlino: il mestiere del giornalista e come non si parla di femminicidio

femminicidio
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Elisa Pomarelli è stata uccisa lo scorso 25 agosto da Massimo Sebastiani, reo confesso. Sebastiani ha ucciso Elisa a mani nude, forse strangolandola, ha buttato il cadavere in un fossato, all’interno di un’area boschiva particolarmente impervia, dopo di che si è nascosto per due settimane. La parola “femminicidio” è ormai talmente presente nel linguaggio giornalistico da aver desensibilizzato l’opinione pubblica. In Italia viene uccisa in media una donna ogni tre giorni (fonte Istat) e i casi in cui l’omicida è un uomo legato alla vittima sono talmente tanti che facciamo ormai fatica a ricordare i nomi delle vittime e dei loro carnefici. Ma questo non è un articolo di cronaca: non spetta a noi raccontare la storia di questo delitto avvenuto nel piacentino.

Questa è una lettera aperta a tutti coloro che ambiscono a esercitare la nobile professione del giornalista.

La storia di Elisa Pomarelli è rimbalzata, come è ovvio, sui principali quotidiani nazionali i quali – quasi senza eccezione, neanche fra le testate che hanno l’ambizione di presentarsi come progressiste – hanno riproposto lo stesso copione che caratterizza la narrazione di ogni femminicidio italiano. La storia che ci viene raccontata dai giornalisti italiani è sempre, invariabilmente, quella dell’assassino.

Nel caso di Massimo Sebastiani ci arriva la definizione di “gigante buono” (viene da chiedersi che cosa debba fare un “gigante”, nel nostro Paese, per essere considerato “cattivo”). Da una testata fra le più moderate apprendiamo che Sebastiani era “innamorato” di Elisa, di un amore “malato”, certo, ma dopo tutto lui è uno spirito semplice, un omaccione che si arrampica sugli alberi e corre scalzo.

Sappiamo nel dettaglio come e quanto Sebastiani abbia singhiozzato davanti al pm, gesticolando disperato, rantolando per il troppo pianto. Sappiamo perfino che la “tomba improvvisata” di Elisa si troverebbe in un luogo dal quale il panorama della provincia piacentina si abbraccia con lo sguardo “come da una balconata”, neanche il suo assassino l’avesse amorevolmente adagiata a riposare nella natura come una moderna Biancaneve.

Di Elisa, naturalmente, non sappiamo quasi niente. 28 anni, consulente finanziaria, segni particolari: morta. Sul suo assassino si sprecano picchi di lirismo manzoniano con echi di suggestioni à la Steinbeck, che ci ripropongono un concetto familiare: quello dell’uomo che ha ucciso per “troppo amore”, perché proprio “non riusciva a sopportare quell’ennesimo rifiuto”, ha ucciso, forse, perché “faceva caldo e lui aveva bevuto un bicchiere di troppo”, ha ucciso, infine, perché Massimo Sebastiani è un omone goffo “non pienamente consapevole della sua forza”. Ma Sebastiani non è Lennie Small in “Uomini e Topi” ed Elisa Pomarelli non era un cucciolo accarezzato con troppa veemenza. Era una donna di 28 anni ed è stata assassinata.

Non c’è niente di poetico, niente di lirico, niente di romantico in questo caso di cronaca e non dovrebbe esserci neanche nella copertura giornalistica dello stesso.

Manifestazione di Non Una Di Meno in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Roma, 24 novembre 2018. Camelia.boban [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]

Ricordate quando, a scuola, ci si cimentava con i vari generi di composizione scritta e si approdava all’articolo di giornale? Ricordate la prima regola che gli insegnanti, dalle medie in su, ci impartivano? Raccontare i fatti, non esprimere opinioni. La cronaca non è letteratura. E la cronaca che usa gli stilemi della letteratura per pilotare le reazioni del lettore è in mala fede e ha delle responsabilità sociali tangibili, reali e non più tollerabili.

La narrativa e la rappresentazione sono importanti. Nessuno può più fingere di non sapere che quello che si definisce “discorso collettivo” influenza il modo in cui i fenomeni vengono percepiti e ha un impatto quantificabile sul modo in cui intere popolazioni pensano, agiscono, votano.
Se il nostro discorso collettivo sul femminicidio continua a propagandare la vergognosa narrativa del maschio che uccide per “troppo amore”, per “gelosia”, perché “impazzisce dal dolore” dopo un rifiuto o la fine di una relazione, questi concetti si sedimentano nel sentire comune, ovvero nell’humus nel quale cresciamo tutti, nel quale si formano i limiti del nostro pensiero. Ciò che è accettabile e ciò che non lo è sono concetti contenuti entro limiti non assoluti, che si spostano nel tempo e che definiscono la nostra società. E gli articoli che romanticizzano il femminicidio lo spingono dentro i limiti dell’accettabile.

violent man photo

Il femminicidio non è un’anomalia della cronaca, è una parte consolidata del sistema, una conseguenza diretta di alcuni precisi fondamenti morali della società. I bambini e i ragazzi di oggi, come quelli di ieri, crescono in contesto culturale che trasmette loro l’idea che, quando una donna rifiuta loro il rapporto sessuale o l’attaccamento romantico, li stia privando di un diritto naturale.
Tutte le volte che un giornalista parla di un uomo che “non ce l’ha fatta” a “sopportare” di non poter possedere una donna o che “è accecato dal dolore o dalla gelosia” per la fine di una relazione, quel giornalista si rende responsabile e complice di una violenza diffusa che si traduce in omicidi, stupri, aggressioni. Tutte le volte che un giornalista racconta la storia di un femminicidio umanizzando l’assassino e seminando accenni al fatto che la vittima lo avesse “illuso” o “provocato”, quel giornalista, personalmente e volontariamente, contribuisce a comunicare agli uomini (soprattutto a quelli di domani) che da loro non ci si può aspettare alcun controllo sui loro istinti e che la libertà di una donna di decidere della propria vita è una violazione diretta e inaccettabile del loro diritto al sesso, all’attaccamento, ma soprattutto al possesso.

Alle donne, invece, si comunica che su di loro ricade la responsabilità di non provocare l’ira e la violenza dell’uomo, di non ostentare la propria libertà, in altre parole di non “andarsela a cercare”. E gli uomini e le donne questo lo sanno.
Lo sa ogni donna che, per respingere le avance non richieste di un uomo, preferisce dire di essere “già impegnata”, indipendentemente dalla veridicità dell’affermazione, perché sa che il suo molestatore rispetterà più la “proprietà” di un altro uomo che non la sua semplice volontà. E la “proprietà” deve essere di un altro uomo, sia chiaro, perché la donna che rifiuta l’uomo per un’altra donna diventa “una sfida” o una deviata da “correggere”. Perché “non voglio” non è abbastanza, non è un motivo sufficiente. Perché quando si rifiuta o si lascia un uomo ci si deve giustificare. E quando un uomo decide di prendersi ciò che ritiene una “cosa” sua o di distruggere quello che vede come un “oggetto” che non può avere, la donna sa che troverà pochissima o nessuna solidarietà.

Photo by marco monetti

L’omicida aveva bevuto? Poverino, non era in sé. La vittima di uno stupro aveva bevuto? Se fosse rimasta sobria, non le sarebbe capitato nulla di male. Un uomo uccide una donna perché questa non si sottomette sessualmente a lui? Un esercito di giornalisti (in gran parte uomini) reagisce istintivamente andando alla disperata ricerca di elementi per solidarizzare con l’assassino, costruendo una deplorevole cattedrale di “sì, però…”. Lui l’ha uccisa? Sì, però era innamorato. Sì, però era geloso. Sì, però lei era tutta la sua vita. Sì, però lei l’aveva illuso. Sì, però lui ha avuto un’infanzia difficile. Sì, però lei lo aveva tradito o lasciato. Sì, però lui era traumatizzato dalla fine di un’altra storia. Riuscite a immaginare una così sollecita difesa giornalistica d’ufficio per qualsiasi altro reato?

Rapina in villa, arrestato uno straniero. Fra i motivi del gesto, si sospetta lo stato di grave indigenza nel quale versava la famiglia del giovane, fuggito da una zona di guerra e da poco padre del terzo figlio.

Perché la cronaca degli altri reati non viene coperta con questi toni? Perché non sarebbe accettabile, perché nessun direttore permetterebbe la pubblicazione di un articolo del genere. Perché sarebbe cattivo giornalismo. E anche perché nessuno prova un senso di istintiva solidarietà per un rapinatore. Perché nessuno si riconosce nel desiderio di commettere una rapina. Il desiderio di uccidere una donna, invece, non è neppure una cosa di cui vergognarsi. Perfino un genio venerato come Pablo Picasso diceva pubblicamente che “quando si cambia moglie bisognerebbe dar fuoco a quella vecchia” perché “distruggendo la donna si distrugge ciò che essa rappresenta”. Come non identificarsi con l’uomo umiliato dal rifiuto, magari in pubblico, abbandonato, tradito, preso in giro dalla donna che prima lo illude e poi non soddisfa le sue necessità?

Photo by MJ Symansky

Per chi commette un femminicidio la levata di scudi è istantanea. E, anche quando non è smaccata come nel caso di alcune specifiche testate italiane (fra le quali quella che ci ha regalato la stucchevole definizione di “gigante buono” per Sebastiani), è comunque presente, subdola. Non si tratta di un vizio solo italiano: nel 2016 il Washington Post ci ha deliziato con la dettagliata cronaca dei successi sportivi e scolastici dello stupratore Brock Turner.

Per sapere con certezza se l’empatia verso chi commette questi crimini sia intenzionale bisognerebbe chiederlo agli autori – e pochissime autrici – degli articoli. Sta di fatto che nessun caso di femminicidio sia esente da narrazioni tese a colpevolizzare la vittima. Dai tempi del Circeo a oggi è cambiato assai poco e questa è una prospettiva desolante. E, dal momento che questa è una lettera aperta, ecco una richiesta diretta a chi si occupa di cronaca: ricordate, per il futuro, la colossale responsabilità che avete nel parlare a milioni di persone di tutti i generi e di tutte le età. Ricordate che ciò che scrivete contribuisce a creare il clima culturale nel quale tutti siamo immersi.

E, a fronte di questa considerazione, tenete presenti alcune semplici verità che sembrano non aver penetrato la maggior parte delle redazioni italiane.

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1) Chi uccide, stupra, picchia e aggredisce non lo fa per amore. Lo fa perché è un assassino, uno stupratore, un aguzzino, un violento. Le motivazioni del suo essere un criminale sono irrilevanti per la giustizia e dovrebbero esserlo anche per la cronaca.

2) Non siamo negli anni ’50: non esistono gli “omicidi passionali”. L’uomo che uccide una donna perché questa lo ha lasciato o rifiutato lo fa perché esige di controllarla e ritiene che lei non abbia il diritto di decidere con chi e quando avere rapporti.

3) Nessun uomo è “vittima” di un rifiuto. Quando scrivete di un femminicidio, sforzatevi di ricordare che la vittima è quella che è stata uccisa.

4) Il rapporto sessuale non è un diritto dell’uomo. La relazione di coppia non è un diritto dell’uomo.

5) Quando si viene lasciati o rifiutati non si ha “diritto” a scuse o spiegazioni. L’uomo che viene rifiutato o lasciato senza una spiegazione non sta subendo un torto e non ha diritto a “vendicarsi”. Se si comporta come se avesse questo diritto, è un criminale.

6) L’omicidio di una donna da parte dell’uomo a cui era legata o a cui si è rifiutata di legarsi non è romantico, è un omicidio.

7) Un omicidio non è “una stupidaggine”, è un omicidio.

8) L’uomo che insiste ossessivamente nell’esigere di possedere una donna e la uccide o la aggredisce quando questa lo rifiuta non è un sentimentale, non è innamorato, non è “ferito” e non è “sempre stato un bravo ragazzo”. È uno stalker, un criminale e lo ha dimostrato ben prima di finire in cronaca come protagonista di un femminicidio.

9) Prendersi il disturbo di raccontare nel dettaglio tutti i presunti moti dell’animo di un assassino, con lo scopo implicito o esplicito di umanizzarlo e suscitare compassione nei suoi confronti, è una pratica spregevole che non dovrebbe avere posto nella cronaca giornalistica, ma che dice molto della personalità di chi la adopera. Lo stesso vale per la colpevolizzazione, sottintesa o diretta, della vittima.

10) Gli uomini sono responsabili delle proprie azioni e in grado di controllare i propri istinti. Non farlo è una scelta. Uccidere è una scelta. Aggredire è una scelta. Picchiare è una scelta. Strangolare è una scelta. Stuprare è una scelta. Occultare un cadavere e darsi alla latitanza per due settimane è una scelta. Descrivere minuziosamente i singhiozzi e la disperazione di un omicida è una scelta.