E se vi obbligassero a lasciare Berlino? La storia di Jessy ci insegna a non dare l’Europa per scontata

lasciare berlino
di Riccardo Coradeschi

I nomi in questo articolo sono stati modificati. Questa è la storia di una ragazza a cui è stato imposto di lasciare Berlino.

Jessy non vuole lasciare Berlino

Al bancone Jessy ordina un flat white in perfetto tedesco, mentre io grugnisco un “Tee, bitte”. I primi cinque minuti della nostra conversazione sono impiegati per cercare di farmi capire cosa sia un Flat White, senza successo.
Jessy è una ragazza Taiwanese sui trent’anni, vive a Berlino da diversi anni, ma recentemente le è stato negato il rinnovo del visto ed è al momento impegnata in un ricorso contro l’ufficio per l’immigrazione di Berlino.

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“Sono arrivata qui nel 2013, dopo aver pianificato il trasferimento per qualche mese. L’idea mi era venuta l’anno prima, mentre stavo visitando l’Europa per la prima volta con mia sorella, che è rimasta piuttosto sconvolta dal primo impatto con il mondo europeo. Abbiamo ricordi piuttosto contrastanti su quella vacanza, non ci siamo parlate per un po’ dopo quel viaggio” ride lei. “Io mi sono trovata bene, e quando ho scoperto che l’università in Germania è praticamente gratuita ho deciso di tentare il processo di ammissione. Speravo di avere l’occasione di fare un periodo di studio anche in Inghilterra, con il programma Erasmus, ma… Brexit!”.

Jessy sta studiando per un master lingua e cultura inglese alla Freie Universität di Berlino, dove si sta specializzando in letteratura teatrale.
“All’inizio mi sono trasferita a Kassel. Avevo studiato tedesco alla triennale, ma avevo bisogno di una rinfrescata prima di iniziare l’università. Dopo pochi mesi mi sono spostata qui a Berlino, dietro consiglio di un docente di Taiwan.”

Il processo di richiesta del visto per chiunque non sia cittadino dell’Unione Europea è piuttosto complesso, ma all’inizio non era stato particolarmente difficile ottenerlo.
“Più che altro verificano che tu abbia abbastanza soldi per mantenerti per il primo periodo, e poi ad ogni rinnovo richiedono gli estratti conto degli ultimi mesi. Il visto per motivi di studio richiede la prova d’accettazione da parte dell’università, ma non era niente di trascendentale. Qualche mese dopo aver iniziato il master ho iniziato a lavorare part-time in una startup qui a Berlino” (N.d.R. i detentori di visto per motivi di studio non possono lavorare più di 120 giornate full-time all’anno).

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Il rinnovo

“Il mio visto scadeva nell’ottobre del 2018, quindi mi sono attivata qualche settimana prima per richiedere il rinnovo. Niente di che, l’avevo già fatto altre volte. Questa volta però me l’hanno negato, motivando la scelta con la scusa che sto impiegando troppo tempo per laurearmi, e quindi probabilmente non sono una vera studentessa”.

Questa accusa è piuttosto risibile per chiunque abbia mai avuto a che fare con un’università tedesca. L’università a Berlino è notoriamente un’istituzione mastodontica ma lenta. L’assenza di esami veri e propri, sostituiti dalla scrittura di paper per ogni corso, e la natura stessa dell’insegnamento universitario di secondo livello, portano ad una dilatazione dei tempi. È quindi comune aspettare risultati degli esami per mesi, o impiegare settimane per avere un appuntamento con un docente. Il ritmo universitario berlinese, se non indolente, si può sicuramente definire rilassato.

“Molti miei compagni di corso sono nella mia stessa situazione dal punto di vista accademico, ma nessuno ha mai messo in dubbio il loro impegno o i loro progressi.”
Le chiedo se ci sono motivi particolari che l’hanno spinta a ritardare la laurea.
“In ufficio la situazione era diventata molto stressante, avevo responsabilità ben al di sopra delle mie mansioni. In aggiunta a questo ero bloccata in una relazione malsana con quello che era il mio fidanzato. Sono riuscita a uscirne solamente un anno e mezzo fa, quando ho deciso di traslocare, interrompere qualunque rapporto con lui ed entrare in terapia.”

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Medici e avvocati

“Non è stato facile trovare assistenza medica in Germania, anche con un’assicurazione sanitaria. Specialmente per l’assistenza psichiatrica sono richiesti molti passaggi, e la maggioranza dei professionisti non è coperta da assicurazione. Ci sono voluti circa sette mesi per avere un appuntamento”.
Alla mia domanda se questo abbia influito sul processo per il rinnovo del visto, lei annuisce.
“L’ufficio immigrazione ha richiesto una dichiarazione del mio terapista per confermare la diagnosi, ed una di un docente universitario per confermare che stessi continuando a studiare per il mio master. Entrambi sono stati molto disponibili e mi hanno mandato velocemente i documenti di cui avevo bisogno”.

L’avvocato aziendale della start-up per cui Jessy lavorava, che aveva preso in carico il procedimento, non ha però preso sul serio la procedura.

“Una settimana prima di Natale mi ha fatto sapere che serviva un’altra dichiarazione del mio medico. Ovviamente ero nel panico! Per fortuna sono riuscita a recuperare l’ennesima conferma della diagnosi e l’ho riportata all’avvocato della compagnia, che però non ha inviato i documenti fino all’ultimo giorno di dicembre. L’ufficio immigrazione non li ha ricevuti fino a dopo la fine delle vacanze invernali. Per allora il termine era scaduto, si sono rifiutati di riconoscere come validi i documenti inviati e il mio visto è stato annullato. Mi hanno sequestrato il passaporto, intimandomi di non lasciare Berlino, a meno che non intendessi comprare dei biglietti per lasciare l’Unione Europea.”
È brava a nascondere il nervosismo.

“A gennaio ho deciso di chiedere una seconda opinione ad un altro avvocato, che mi ha incoraggiato a fare ricorso e chiedere un riesame della mia pratica. Quindi sto andando in tribunale contro il governo di Berlino!” scherza.
“Un giudice esaminerà le prove e ha richiesto altre dichiarazioni da parte dell’università e del mio medico. A fine giugno dovrei avere finalmente una risposta, dopo sette mesi”.

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Il business dei matrimoni

Da sempre terrorizzato dalla burocrazia, le chiedo se abbia pensato a soluzioni alternative.
“Volevo sposare qualcuno! A dicembre, quando non sembrava esserci una soluzione in vista, ero talmente esasperata che ho seriamente considerato di sposarmi per ottenere la cittadinanza. Stavo male al punto di volerlo proporre al mio ex, ma fortunatamente è un’idea che è stata accantonata velocemente. Ne ho discusso con il mio avvocato, a quanto pare c’è un vero e proprio business per i matrimoni per la cittadinanza: un cittadino tedesco può prendere sui 30-40.000 € per ogni anno di matrimonio. In realtà sono molto felice di non aver tentato seriamente questa strada, era un’idea frutto dell’esasperazione”.

Mi chiedo se valga la pena sopportare questa trafila per non lasciare Berlino.
“Prima di venire qui stavo passando un periodo molto cupo della mia vita, ma qui mi sono costruita una casa, delle amicizie, una vita. Ho dei piani qui a Berlino, e non voglio vederli finire in un nulla di fatto per colpa dell’ufficio immigrazione. Non so se voglio passare tutta la mia vita a Berlino, ma so che voglio esserci ora. Puoi costruire una vita adatta a te, chiunque tu sia: dal frequentatore abituale del Berghain al padre di famiglia impiegato.”

Jessy fa una pausa, raccoglie col cucchiaino il fondo della schiuma nella tazza.
Berlino non è razzista, anzi, ma sicuramente sembrano esserci dei distinguo tra gli stranieri. Un mio compagno di corso americano ha iniziato con me, siamo esattamente allo stesso punto con i nostri studi, ma a lui non è mai stato negato il rinnovo del visto.”
Adesso Jessy vive a nord di Charlottenburg. Le dico che sembra un quartiere un po’ upper-class.

“Ogni tanto mi chiedo anch’io se ne valga la pena, dato che se tornassi a Taiwan avrei una posizione sociale ed economica migliore di quella che ho qui. Ma ho lavorato per costruire qualcosa a Berlino, mi sono data da fare per vivere in questa città, e non voglio che qualcuno mi porti via tutto questo. Ci ho vissuto metà della mia vita adulta, mi ha aiutato a capire chi sono e cosa sono in grado di fare.”


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I privilegi della cittadinanza europea: nessuno può costringervi a lasciare Berlino (se siete italiani)

È difficile comprendere quanto possa significare la cittadinanza europea. Per molti versi il percorso di Jessy è stato simile al mio, ma ad ogni passo sono stato agevolato dalla mia appartenenza all’Unione Europea. Ho potuto trasferirmi a Berlino da un giorno all’altro e decidere solo in seguito cosa fare, trovare un lavoro a tempo pieno mentre studiavo, sono stato libero di muovermi tra Germania e Italia nel momento in cui ho avuto bisogno di supporto psichiatrico, ho il diritto di impiegare quanti anni desidero per completare lo stesso percorso di studi, ho potuto sposarmi non per necessità ma per amore. Questi diritti sono, per noi, talmente basilari da diventare scontati.

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Questi privilegi, questo sentimento di appartenenza a qualcosa di più complesso che un’identità nazionale, vengono messi in discussione ora dalle istanze separatiste di alcuni movimenti politici in tutta Europa. Nel 2017, 20.800 italiani vivevano a Berlino, e si parla solamente di chi ha registrato la residenza. Senza l’appartenenza all’UE, questa fetta della popolazione si troverebbe, di colpo, pari agli extracomunitari che tanto sembrano spaventare le masse nella narrazione politica attuale. Jessy, immigrata extracomunitaria, non è in fuga da guerra o miseria (non più di quanto lo sia io): è una berlinese che lotta per non lasciare a Berlino e per avere gli stessi diritti che a molti europei appaiono come un giogo.

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