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Unconventional Berlin Diary: Lichtenberg è sola come me

Odio andare a Lichtenberg di sera tardi, ma devo farlo ogni settimana, per provare con la band. Ci impiego più di un’ora, da casa mia, e come se non bastasse recentemente ho incontrato due neonaziste alla stazione della metro. Una aveva il taglio Chelsea di ordinanza, l’altra una scritta HA.SS sul giubbotto. “Hass” in tedesco significa “odio” e il punto serve a evidenziare la sigla SS, che queste persone amano esibire con orgoglio.

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Le ho guardate mentre l’U-Bahn se le portava chissà dove, nella stessa città che ospita il Memoriale dell’Olocausto e che ha distrutto il rifugio sotterraneo di Hitler, per evitare processioni di nostalgici. “A volte ritornano” direbbe Stephen King e purtroppo a Berlino questa gente ritorna più spesso a est, in periferia, dove vado a fare le prove io.

Lichtenberg e il mio deserto

La sala in cui suono con la mia band è invece in un ex edificio della Stasi, praticamente un bunker della DDR. Qualcuno ci vive anche, soprattutto musicisti di passaggio.

Tutto intorno è un deserto di cemento, soprattutto con il buio. Non c’è un bar, una birreria, neanche uno Späti, niente di niente. Per più di un chilometro ci sono solo palazzi grigi e silenziosi e un negozio di mobili sempre chiuso, ma illuminato all’interno. Sembra un quadro di Hopper ed è inquietante più di tutto il resto.

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Insomma, è la tipica zona industriale in cui le luci sono solo quelle dell’illuminazione stradale e dei mezzi in transito. Quando nevica è tutto ancora più sospeso e surreale e in fondo mi piace, nonostante il disagio, perché mi sento così anch’io.

Devo confessare di non sentirmi a mio agio dove la vita si esprime al meglio, perché sono io a non esprimere al meglio la vita. Meglio la fuga in periferia, allora, in senso reale e metaforico. Meglio stare in standby, fingere il letargo. Lichtenberg è una mimesi del mio stato d’animo. Anche io sono deserta e gelida, anche se occasionalmente attraversata da gente in transito.

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Parlando in questo modo, però, potrei risultare fuorviante e persino offensiva e dare l’impressione di non amare o essere amata da nessuno, mentre non è affatto così. In realtà ho genitori, amici e una donna che adoro, sono in (relativa) salute, non sono (ancora) agli sgoccioli e vivo a Berlino, una città che ho sempre amato. Potrei riempire le giornate di esperienze da ricordare.

Eppure mi sento come un ramo spoglio sotto la neve. A tremare di rabbia e paura del tempo e delle cose. “Il tempo e le cose”, tra l’altro, è il titolo del mio sussidiario delle elementari… ma non è il momento di fare digressioni. Torniamo al presente e alle costanti della mia vita, per esempio l’ansia.

L’ansia è un caffè amaro che sa di zuppa di piedi

L’ultima volta che ho fatto le prove, sempre diretta a Lichtenberg e sempre con un freddo becco, ho preso per sbaglio la S45 invece della S41 e sono finita a Pankow. Sono saltata all’ultimo secondo sulla S9 per arrivare in tempo a Frankfurter Allee, non sono riuscita ad andare in bagno perché non avevo le chiavi, mi sono fatta tentare dal distributore e ho trangugiato un caffè senza zucchero dopo le nove di sera. Non avrei dovuto.

Intanto perché non era un vero caffè, ma una brodaglia che sapeva di fiele e zuppa di piedi, e poi perché ho avuto un principio di attacco di panico davanti ai bagni, dopo le prove.

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Per distrarmi ho cominciato a impostare il jab su un pacchetto di sigarette che qualcuno aveva attaccato alla parete con del nastro adesivo, per ragioni assolutamente ignote. Il mio batterista ha cominciato a fare lo stesso e siamo andati avanti a turno a dare pugni al pacchetto, come due scimmie, finché non è caduto.

Visti dall’esterno, eravamo la prova finale che il creazionismo è una balla. Dato peraltro evidente a chiunque abbia occhi per cogliere la palese somiglianza che esiste tra gli esseri umani e il bonobo Kanzi. Le prove le abbiamo portate a termine, comunque.

Quelle cose che non ho fatto e che non farò mai

Tornando a casa, in tardissima serata, avevo in mente tante cose. Pensavo alla ritmica di “Man-Size” di PJ Harvey, che adoro suonare, allo Xanax sull’armadio, tra la Paracodina e l’acetone, perché a volte i vecchi amici cardio-tossici tornano a tenderci la loro mano viscida e appiccicosa, e al fatto che siamo tutti dispensabili reietti, al mondo.

Pensavo anche alle canzoni che non ho ancora arrangiato, a quelle che ho arrangiato in elettrico e volevo arrangiare in acustico, alle registrazioni smarrite e alle idee evaporate e al fatto che c’è sempre qualcosa di fondamentale che non ho ancora fatto e non farò mai.

Allora mi è salita una specie di ansia mista a rabbia e ho capito che la zuppa di piedi del distributore non c’entrava. C’entra invece quello stato d’animo che mi fa somigliare alla periferia più desolata di Lichtenberg, perché non offre illusioni… e quindi mi protegge dalle delusioni. In questo senso, mi fa meno male del cuore della città, con le sue luci accecanti come bengala e mille promesse che non saranno mai davvero alla mia portata.

Ad ogni ogni modo una cosa è certa: anche se abbiamo stabilito che la mia ansia non è un fenomeno contingente, ma esistenziale, mai più caffè dopo le nove. NEVER AGAIN.

Colonna sonora: “Speed of life”, David Bowie ♠


Machete

Machete vive a Berlino dal 2013.

Ama la musica, il cinema, la letteratura e la serotonina.

A otto anni sperava che prima o poi qualcuno avrebbe inventato una pillola contro la morte. Un po’ lo spera ancora.

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