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Frontex e le espulsioni spiegate ai bambini: perché l’Europa non accetta di essere “il cattivo”

di Angela Fiore

In questi giorni, in Germania, alcuni commentatori politici e una manciata ti testate, per lo più legate all’ambito dell’attivismo, hanno commentato con toni accesi una pubblicazione dell’agenzia europea di protezione delle frontiere Frontex dal titolo traducibile come “La mia guida per il ritorno”. Si tratta di un opuscolo illustrato, che Frontex ha prodotto, a quanto sembra, per spiegare le espulsioni e i rimpatri ai bambini di età compresa fra i 6 e gli 11 anni. Se l’idea vi mette a disagio e vi sorprende negativamente, non siete i soli.

Reazioni a scoppio ritardato

Il primo elemento che stupisce è che l’indignazione sia arrivata soltanto adesso, considerando che l’opuscolo è stato pubblicato nel 2023. Il secondo è che, nonostante il testo sia disponibile in diverse lingue (non in italiano), le recenti reazioni di sconcerto siano comparse quasi esclusivamente in lingua tedesca o comunque in area germanofona. Si può ipotizzare che ci sia un collegamento con l’accento che la nuova amministrazione tedesca sta ponendo sulle restrizioni all’immigrazione e sui respingimenti alle frontiere. Vale però la pena di notare che il libretto di Frontex non parla di respingimenti, ma di espulsioni, nello specifico del rimpatrio di famiglie che abbiano vissuto in Europa abbastanza a lungo da avere figli di età superiore ai sei anni, i quali siano stati socializzati per lo più nel Paese di destinazione.

Perché questo testo mette così a disagio chi lo legge essendo in possesso di una normale sensibilità umana? Come prima cosa, vi invito ad andarlo a leggere (la pagina italiana del sito propone la versione in inglese, la trovate qui), per formulare la vostra risposta. Questa è la mia.

Il contesto delle espulsioni in Europa

Facciamo un passo indietro, per spiegare a chi non lo sapesse in che contesto si inserisce questa pubblicazione. I dati ufficiali sulle espulsioni di immigrati extra-europei dai Paesi dell’unione testimoniano un trend in crescita: secondo il bilancio annuale del Ministero dell’Interno austriaco, per esempio, nel corso dell’ultimo anno sono state espulse complessivamente 13.307 persone: il numero più elevato mai registrato. La Germania, invece, ha espulso nel 2024 circa 20.100 persone – un numero in aumento per il quarto anno consecutivo, arrivando al livello più alto dal 2019, per quanto ancora non ai livelli del 2016, quando furono espulse circa 25.400 persone.

Tra queste espulsioni, poco più della metà sono state classificate come “partenze volontarie”, sebbene le organizzazioni che si occupano di diritti dei migranti contestino una certa misura di coercizione o quantomeno di pressione anche in questi casi.

La “guida al rimpatrio” di Frontex: le espulsioni diventano “un’avventura”

Frontex è responsabile delle espulsioni, dei rimpatri e delle partenze volontarie dall’Europa ed è anche l’ente che ha pubblicato l’opuscolo in questione, nel quale l’espulsione dal Paese in cui si vive, lo sradicamento, perfino l’ipotesi della detenzione in un centro di permanenza temporanea in attesa del rimpatrio e la possibilità di vedere i propri genitori o familiari imbarcati in un aereo in manette vengono presentati come una colorata e simpatica avventura. Sradicamento? Ma va! È un viaggio verso un mondo nuovo, pieno di promesse, pieno di possibilità, di nuovi amici, di buon cibo e divertimento. Praticamente un viaggio premio.

Più di tutto, è questo che disturba: non è vero. Lo sappiamo noi, lo sanno gli autori del testo di Frontex, lo sanno le autorità che ordinano le espulsioni, lo sanno i bambini ai quali questo opuscolo è destinato, lo sanno i genitori di quei bambini che, viene da ipotizzare, non si avvarranno di questo strumento per spiegare ai loro figli perché, improvvisamente, stanno per essere portati via da tutto ciò che conoscono e rispediti nel luogo dal quale loro stessi avevano cercato di allontanarsi.

E allora che senso ha questo sforzo “editoriale”, popolato da almeno due versioni grafiche (una più inquietante dell’altra) che non riescono comunque a dare l’impressione che vada tutto bene, a nascondere la realtà dei fatti, cioè che l’espulsione dal contesto nel quale si vive può essere una tragedia che avrà un impatto traumatico sulla vita del minore che la esperisce?

Foto Mika Baumeister on Unsplash

L’Europa che ha bisogno di essere “buona”, anche quando non lo è

L’impressione che se ne ricava è quella di un’Europa che, più di tutto, ha bisogno di non essere il cattivo della storia, che proprio non ce la fa a prendersi le responsabilità morali di decisioni che morali non sono, che non riesce fino in fondo ad ammettere che le scelte che compie sulle vita di decine di migliaia di persone sono dettate dalla convenienza politica e che non c’è nessuna giustizia di base da rivendicare, quando si decidono unilateralmente i limiti dei diritti altrui.

Perché la premessa dell’opuscolo è anche vera: “tu vorresti continuare a vivere in questo Paese, ma al momento questo non è possibile, perché ci sono delle regole e delle leggi che non lo prevedono e, in base a queste leggi, le autorità hanno deciso che tu e la tua famiglia dobbiate tornare nel vostro Paese d’origine”. È vero, è così che funzionano le espulsioni, quasi nessuno, nello spettro politico, ne contesta la legittimità in assoluto, ma perché fare finta che alla base ci sia alcunché di morale? Non c’è. Il problema, in questo caso, non è il danno, ma la beffa. 

L’elefante nella stanza

Le espulsioni esistono perché l’occidente cerca di contenere il numero di persone che si spostano, per lo più dai Paesi che lo stesso occidente ha colonizzato, le cui risorse sono gestite da aziende occidentali o i cui regimi politici sono stati destabilizzati come risultato di anni di colonialismo. Le espulsioni esistono perché gli abitanti di Paesi le cui economie sono state distrutte perché le nostre potessero prosperare, a volte, scelgono di spostarsi per avere accesso a un po’ di quel benessere che noi consideriamo un diritto umano e che altrove può essere un privilegio di pochissimi. E, a volte, questo le porta a vivere comunque ai margini di una società che non sa integrare, che discrimina o che isola, a dover fare il triplo della fatica per ottenere la metà, a combattere con lo spettro di un’assimilazione che si paga a prezzo delle proprie radici e della propria identità. Quando queste persone si trovano a dover chiedere aiuto, quando le risorse non bastano, quando si decide che il risultato del rimpatrio non è l’arresto o la morte immediata (come nel caso di minoranze perseguitate o Paesi ritenuti formalmente non sicuri), scatta l’espulsione. Questo non è un discorso morale, è il riassunto del riassunto del riassunto di un fenomeno estremamente complesso che va considerato per quello che è: reale. Ma non morale.

2000 rifugiati immigrazione
Una donna con il proprio bambino in attesa di ricevere un pasto presso il checkpoint di Bruzgi, al confine fra Bielorussia e Polonia Foto: EPA-EFE/STRINGER

Il meraviglioso viaggio dell’espulsione

E allora perché, dicevamo, questa messa in scena? Perché questa narrazione che ha la pretesa di insegnare ai genitori dei bambini che finiscono travolti da questo fenomeno come gestire l’impatto psicologico sui propri figli, avendo comunque come preoccupazione principale il fatto che i piccoli non si formino un’idea negativa dell’Europa che li caccia via, che non percepiscano come ingiusto quello che sta loro accadendo né come ostili le persone che li rinchiudono in strutture da cui non possono uscire o che mettono le manette ai polsi dei loro genitori? Perché l’Europa ha tanto bisogno di considerarsi morale ed è disposta a fare di tutto pur di sembrarlo, perfino a dire a chi paga il prezzo più alto come deve sentirsi e a negargli il diritto di provare risentimento?

A risultare più disturbanti, infatti, sono proprio i passaggi che cercano di far passare come amichevoli istituzioni che, come chi emigra in Europa sa benissimo, non lo sono praticamente mai. Meno ancora quando si arriva all’espulsione.

Anche se, all’inizio, l’opuscolo rassicura il fantomatico piccolo lettore che i suoi sentimenti di tristezza e rabbia sono “normali”, per tutto il testo non si fa altro che cercare di manipolarlo per fargli cambiare idea. “Prima di tornare nel tuo Paese d’origine con la tua famiglia” si legge più avanti “potresti soggiornare in una struttura insieme ad altre famiglie in attesa di partire. (…) Potresti essere autorizzato a lasciare la struttura, ma forse no”. Ci vuole un livello speciale di anti-moralità per cercare di far passare per normale e quasi piacevole, per un bambino, l’esperienza della detenzione. Eppure i centri di permanenza pre-espatrio sono presentati come posti belli, nei quali si sta con la propria famiglia, si mangia tutti insieme, si gioca, si è al sicuro. E tutti gli “accompagnatori”, questi adulti gentili che indossano “un giubbotto che ti permette di riconoscerli”, sono lì per “aiutarti”, per “aiutare te e la tua famiglia”: quello è il loro compito. Non tenerti lì fino al giorno del rimpatrio. Non impedirti di scappare. Non ricorrere alla forza se qualcuno dei tuoi familiari dovesse provarci. Quella che stai vivendo, bambino fantomatico, non è un’esperienza orribile. Non devi viverla come un’esperienza orribile. Non ostinarti, per favore, a viverla come un’esperienza orribile causata da noi, perché poi ci sentiamo cattivi e noi non siamo cattivi. Cattivi sono gli altri, probabilmente quelli da cui ti stiamo rimandando. Noi no.

Il picco della manipolazione e della negazione della realtà lo si incontra nel capitolo sul rimpatrio vero e proprio, in particolare sugli spostamenti all’aeroporto: “Potresti vedere qualcuno in manette” (probabilmente tuo padre, ndr) ma devi capire che questa misura è pensata per “tenere al sicuro lui e gli altri”. Perché evidentemente un bambino di otto, nove, dieci anni non è in grado di capire che essere ammanettati non è sinonimo di “essere messi al sicuro”, ma di “essere in trappola”. Perché questo accade quando si viene rimpatriati: si è in trappola. Se ci si rifiuta di salire sull’aereo, si viene contenuti.

Ma di questo il piccolo lettore non deve preoccuparsi. Deve ignorare i pianti, le proteste, le armi degli “accompagnatori”, deve pensare invece a portare con sé “giocattoli o un libro nel bagaglio a mano”, per non annoiarsi durante il volo. E in viaggio potrebbero perfino esserci dei video da guardare! E poco importa se il Paese della sua famiglia quel bambino non l’ha mai visto, se non parla la lingua, se non conosce nessuno, se non ci sono possibilità, se il suo diritto allo studio non è garantito, se non è detto che possa avere una casa, accesso alla sanità, protezione: è una nuova avventura! È un luogo in cui potrai “imparare nuove cose, vivere esperienze diverse”, non è emozionante? E poi ci sarà una nuova scuola con insegnanti simpatici, amici gentili, cibo delizioso, perfino dolci che non hai mai assaggiato!

Noi siamo i Buoni

Il problema di questo opuscolo di Frontex non sono le espulsioni in sé. O meglio, non è questa la sede adatta per parlare di espulsioni, di rimpatri, delle diverse opinioni sulla loro legittimità, di Paesi sicuri, di chi può o deve essere espulso e verso dove, dell’orrore dei “Paesi terzi” e neppure delle cause profonde delle grandi migrazioni di massa e delle nostre colpe storiche in tal senso. Questa non vuole essere una polemica sulle scelte politiche dei diversi Paesi europei e dell’Europa tutta sul tema della migrazione. Questa è solo una riflessione su questo specifico opuscolo, su questo libretto dell’orrore, talmente brutto che gli autori l’hanno disegnato due volte senza riuscire a renderlo meno distopico. 

Il problema è il cerchiobottismo dei governi europei che vogliono i voti dei conservatori e quindi li appagano premendo sull’acceleratore delle espulsioni, ma che compongono un’Unione che ha un bisogno spasmodico di essere considerata quella bussola morale che ha smesso di essere ormai da molto tempo. Un’Europa che non esita a vittimizzare anche i minori, sottoponendoli all’ordalia del rimpatrio, ma che poi metaforicamente li rincorre per farsi rassicurare sul fatto che non serbino rancore. Perché loro saranno anche vittime, ma noi non possiamo essere carnefici, non lo siamo mai stati. Noi siamo i Buoni e questo deve essere chiaro a tutti. C’è qualcosa di disperatamente stucchevole nella pretesa di dirigere dall’alto il modo in cui devono sentirsi i minori espulsi e in cui i loro genitori devono spiegare loro l’esperienza dell’espulsione. C’è il riflesso di un Europa che non riesce a fare i conti con sé stessa, che assesta uno schiaffo e poi dice alla vittima “guarda cosa mi hai fatto fare”.

Wir schaffen das nicht

Ai tedeschi potrà venire in mente quel video del 2015, nel quale l’allora Cancelliera Angela Merkel cercava invano e goffamente di consolare Reem Sahwil una bambina libanese che piangeva disperata, dopo che la stessa Merkel le aveva spiegato che la Germania non poteva accogliere la sua famiglia. Le differenze fra Frontex e Merkel, però, sono due: la prima è che l’ex Cancelliera era ed è una persona singola, che ha reagito su due piedi alla realizzazione orribile di essere la causa del dolore visibile di una bambina. Frontex è un’organizzazione, composta da molteplici persone che hanno avuto il tempo di pensare prima di pubblicare questo testo. Qualcuno ha avuto l’idea, qualcun altro l’ha approvata, sono stati scelti autori, artisti, disegni, testi, sono stati corretti fino a quando non si è detto “sì, questo è il risultato che volevamo”. La seconda è che Merkel ci ha ripensato, più o meno: poco dopo quel video è venuto il momento dell’ormai celebre “Wir schaffen das”, “ce la facciamo”, che ha cambiato la storia delle politiche migratorie tedesche – un concetto impensabile, per quello che è il governo a guida CDU attuale. 

deterrenza militare
L’ex cancelliera tedesca Angela Merkel durante la conversazione “Allora, qual è il mio paese?” con Alexander Osang al Berliner Ensemble di Berlino, Germania, 07 giugno 2022. Foto: EPA-EFE/FILIP SINGER

Inoltre, raccontando l’episodio nella sua autobiografiaFreiheit”, Merkel viene a patti con il fatto che le decisioni politiche hanno conseguenze umane che vanno guardate in faccia.

In quel momento ho capito che era successo qualcosa che mi avrebbe perseguitata, perché non ero riuscita a impedire che una partecipante alla discussione scoppiasse in lacrime, per di più una ragazzina così giovane. Avrei potuto semplificarmi la vita e dopo pochi minuti dire: ‘Hai spiegato tutto benissimo. Sarebbe fantastico se mi scrivessi tutto in una lettera, così potrei riesaminare la tua richiesta e risponderti’. Da un lato sarei rimasta fedele a me stessa, senza dare false speranze senza conoscere il caso, dall’altro non avrei dovuto far soffrire la ragazza più di una volta, sentendosi dire che la Germania non può farcela ad accogliere tutte le persone di questo mondo, ma deve dare la priorità a coloro che fuggono da un paese in guerra civile o sono perseguitati politicamente. Il Libano, da cui proveniva la famiglia di Reem, a differenza della Siria, non era considerato una zona di guerra civile”.

In questa frase, che da una prospettiva contraria alle espulsioni non è comunque all’altezza della situazione, sta tutta la differenza fra l’approccio tedesco del 2015 e l’approccio europeo di oggi. L’approccio di Merkel è umano, che sia giusto o no, è comunque posizionato su un piano morale: si fa carico del disagio che le conseguenze delle sue scelte possono generare, un disagio che viene dalla contemplazione del dolore che si è causato. Se non può evitare di causare dolore, almeno ha la decenza di guardare in faccia questo dolore e patire un minimo sindacale di contrizione. Dall’altro abbiamo l’approccio di Frontex, che non è una persona e ce lo ricorda mancando straordinariamente di qualsiasi forma di umanità. Potrebbe limitarsi a ignorare il dolore di chi subisce le conseguenze dei rimpatri, ma riesce a fare peggio.

In questo caso, il dolore dell’altro per le nostre decisioni non è solo un suo problema, è un suo errore. L’altro, anche se ha meno di 12 anni, dovrebbe avere la buona grazia di non farcelo vedere questo dolore, dovrebbe avere la buona educazione di essere almeno un po’ contento del fatto che lo preleviamo dalla sua scuola, da casa sua, lo mettiamo in un centro di detenzione, poi ammanettiamo suo padre o sua sorella e li carichiamo tutti su un aereo per portarli in un Paese che lui non ha mai visto. L’altro, dall’alto dei sui sei, sette, dieci anni, dovrebbe capire che noi ci sentiremmo molto meglio se non la prendesse così male, se non si mettesse a piangere. L’altro, che è umano, dovrebbe avere la delicatezza di preoccuparsi dei sentimenti di Frontex, che non lo è.

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