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Abolire la due diligence sulle filiere produttive. Gli industriali supportano Merz “Fidatevi del mercato”

Il dibattito sulla legge che riguarda le filiere produttive in Germania non è propriamente l’argomento più discusso, quando si parla di politica interna e dei piani del nuovo governo. Eppure, si tratta di un tema fondamentale, del quale si discute animatamente a livello nazionale. A rendere ostico il tema è in parte la sua complessità e in parte la difficoltà di confezionarlo in titoli accattivanti. Tuttavia, le ripercussioni pratiche delle decisioni prese in questo ambito sono colossali e l’intero settore produttivo tedesco le segue con il fiato sospeso. L’oggetto del contendere sono due leggi sulla cosiddetta “due diligence” delle filiere produttive, una europea e una tedesca: Friedrich Merz vorrebbe abrogarle entrambe.

Che cos’è la due diligence?

Con l’espressione “due diligence” si intende, in diversi ambiti, il dovere di indagare e assicurarsi sulla correttezza di un processo o di una serie di dati. Si applica questo principio, per esempio, alla verifica dei dati di bilancio di una società. In questo caso, però, si parla di due diligence in riferimento al dovere di un’azienda di verificare, entro certi limiti di responsabilità stabiliti dalla legge, che nessuna parte della propria filiera produttiva sia connessa a situazioni di abuso o a pratiche di contaminazione dell’ambiente considerate illecite (per esempio, un’azienda europea che acquista semilavorati da un Paese in Asia, dovrebbe verificare che tali semilavorati non siano prodotti sfruttando il lavoro minorile).

Che cosa vuole fare il nuovo governo tedesco in Germania

Il nuovo esecutivo tedesco intende abrogare la legge nazionale sulla due diligence nelle catene di fornitura, ma emergono divergenze sull’estensione di questa decisione alla direttiva europea. Le due normative sono distinte, ma interconnesse: sia la legge tedesca che la direttiva UE impongono alle imprese obblighi di controllo e documentazione relativi a diritti umani e standard ambientali nelle loro filiere produttive.

Per la legge tedesca c’è poco da fare: nell’accordo di coalizione, approvato tanto dall’Unione quanto dall’SPD, si parla di un “programma di riduzione immediata della burocrazia”, da attuare entro fine 2025, che include l’eliminazione della normativa nazionale sulla due diligence delle filiere produttive. È prevista la sostituzione con una legge sulla responsabilità d’impresa internazionale e l’immediata cancellazione degli obblighi di rendicontazione. Nel periodo transitorio, le sanzioni per inadempienza saranno applicate solo in casi di gravi violazioni dei diritti umani. L’attuale normativa è operativa dal gennaio 2024 per le aziende con almeno 1.000 dipendenti.

Festeggiano molte grandi aziende tedesche, che da tempo lamentano il peso degli obblighi burocratici sul proprio fatturato. Naturalmente, dalle fila dell’industria tedesca non si levano relativizzazioni dell’abuso dei diritti umani, dello sfruttamento del lavoro o inni alla contaminazione delle risorse ambientali. Gli industriali che si sono espressi in merito affermano però di agire già in modo etico e responsabile laddove possibile e di non aver bisogno di gravose procedure atte a dimostrare la sostenibilità delle proprie operazioni. Abolire le norma in vigore, sostengono gli industriali tedeschi, consentirà di risparmiare risorse da reinvestire nello sviluppo produttivo, migliorando la competitività delle imprese nazionali.

Questa posizione è condivisa da Nicole Hoffmeister-Kraut (CDU), Ministra dell’Economia del Baden-Württemberg, che considera la legge e i relativi obblighi di rendicontazione un onere burocratico eccessivo e dubita che essi possano portare a un effettivo miglioramento delle pratiche aziendali.

La direttiva europea sulla due diligence nelle filiere produttive: cosa chiede Merz alla commissione UE

La Direttiva europea sulla catena di fornitura (CSDDD), entrata in vigore nell’estate 2024, continuerà comunque ad applicarsi alle imprese tedesche indipendentemente dall’abrogazione della legge nazionale. Gli Stati membri hanno tempo fino al 2026 per recepirla, con un’applicazione graduale fino al 2029, estesa alle aziende con oltre 1.000 dipendenti e fatturato superiore a 450 milioni di euro annui. La direttiva UE si basa concettualmente proprio sulla normativa tedesca. La CSDDD impone obblighi significativi alle aziende, obbligandole a identificare, valutare, prevenire, mitigare, affrontare e rimediare agli impatti negativi legati alle violazioni dei diritti umani, come il lavoro minorile e il lavoro forzato, e ai danni ambientali, come la deforestazione, l’inquinamento e i danni all’ecosistema. Questi requisiti riguardano sia le catene di approvvigionamento a monte che alcune attività a valle, tra cui la distribuzione e il riciclaggio.

Il Cancelliere Friedrich Merz ha però alzato il tiro durante la sua prima visita a Bruxelles, chiedendo all’UE di abrogare anche la direttiva europea, andando oltre quanto stabilito nell’accordo di coalizione: “Abrogheremo la legge nazionale in Germania. Mi aspetto che anche l’Unione Europea segua l’esempio e abroghi questa direttiva”. 

Questa posizione ha generato tensioni all’interno della coalizione governativa. L’SPD si oppone all’estensione dell’abrogazione alla direttiva europea: il deputato René Repasi ha respinto l’idea pur dichiarandosi aperto a modifiche, mentre il presidente del partito Lars Klingbeil ha sottolineato che l’accordo di coalizione riguardava esclusivamente la normativa tedesca, senza riferimenti a quella europea.

Le critiche arrivano dai giuristi: il vuoto legale è un pericolo per le aziende

Le reazioni non sono mancate: un gruppo internazionale composto da giuristi ha inviato una lettera aperta ai parlamentari europei e ai rappresentanti dei Paesi dell’UE per mettere in guardia contro gli enormi rischi legali per le aziende che deriverebbero da un indebolimento della direttiva UE sulla catena di fornitura.

Nello specifico, a preoccupare i giuristi e gli esperti è la proposta di modificare l’articolo 22 della direttiva. Ciò significherebbe che le aziende dovrebbero solo redigere i propri piani di protezione del clima, ma non sarebbero più tenute ad attuarli. Il documento è disponibile qui.

Potrà sorprendere che il richiamo venga dai giuristi e non dagli attivisti per il clima. A preoccupare i firmatari, fra cui figurano anche ricercatori di rinomate università come Oxford nel Regno Unito e Sciences Po in Francia, è il fatto che un maggiore lassismo in questo ambito possa compromettere gli obiettivi dell’accordo di Parigi sulla protezione del clima. La mancanza di un quadro giuridico vincolante, inoltre, “porterebbe direttamente a un aumento dei rischi di responsabilità” per le aziende. In questo senso, sono già state intentate cause legali contro le società energetiche TotalEnergies ed ENI, la Volkswagen e le banche BNP Paribas e ING.

La Commissione europea non ha voluto commentare le critiche.

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