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Le differenze sono punti di forza – Intervista a Lucia Chiarla

Lucia Chiarla è una regista italiana, ma è anche una regista tedesca. Italiana lo è per nascita, ma la sua carriera registica si è svolta interamente in Germania. Dopo essersi fatta conoscere al grande pubblico nel 2018, con il film “Reise Nach Jerusalem”, è appena tornata al cinema con “Es Geht Um Luis”, scritto e diretto adattando un testo teatrale di Paco Bezerra. Il film, che è attualmente in programmazione in diversi cinema in Germania, tratta il tema del bullismo in un modo inedito e con incredibile delicatezza, ma comunque riuscendo a essere incisivo e doloroso. È un film che fa male guardare, ma che fa bene guardare, che racconta le dinamiche di conflitto e di frustrazione intorno a un sistema che si rifiuta di guardare nei propri “angoli bui”.

Luis è un bambino come gli altri, come gli altri va a scuola. A differenza degli altri, ama andarci con il suo zainetto preferito, decorato con paillettes e con il disegno di un unicorno. Gli altri bambini diventano sempre più aggressivi nel loro rifiuto della sua differenza, lo prendono in giro e lo aggrediscono, ma, per la scuola, ad essere stigmatizzato è sempre lui, che si ostina a non voler essere come gli altri e che cerca di proteggersi, perché si piace così com’è. Lo spettatore vive la storia con gli occhi dei genitori di Luis, dilaniati da un contrasto che si insinua anche nel loro rapporto: cercare di obbligare il figlio a integrarsi o lottare insieme a lui per il diritto di affermare la sua individualità?

Una scena di “Es geht um Luis”, di Lucia Chiarla. Foto: Anke Neugebauer

Abbiamo parlato con Lucia Chiarla della sua carriera e di questo suo modo di raccontare, di uno sguardo fatto per spingerci a guardare la realtà dalle prospettive più “scomode”.

Cominciamo dalla fine, cioè dal presente: oggi Lucia Chiarla è una regista italiana o una regista tedesca?

Se dovessi definirmi una regista tedesca o una regista italiana, perderei metà di ciò che sono. Certamente la mia formazione in Italia è stata fondamentale. Ma quello che influenza una persona è il modo di vivere, la socializzazione, e sicuramente in Italia e Germania abbiamo una diversa socializzazione. Io vengo da un’infanzia e adolescenza vissuta in spazi sempre condivisi, piccoli e affollati, dove il volume di voce è sempre altissimo, c’è poco spazio per ritirarsi, dove è normale invitare le persone a casa a pranzo. Da questo sono passata ad una città come Berlino, dove dominano ancora grandi vuoti, con strade enormi, dove le persone restano ad un metro e mezzo di distanza già da prima della pandemia. Dove gli incontri sono spesso a due e non si grida. E questo ha un grande impatto sulla persona, o almeno su di me. 

Una scena di “Es geht um Luis”, di Lucia Chiarla. Foto: Anke Neugebauer

Per quel che riguarda la cultura, alla fine degli anni ’80 inizi ’90 si viveva un grande desiderio di Europa. A scuola leggevo Pirandello e Svevo ma a teatro scoprivo Brecht, così come Ibsen o Handke. La scuola di teatro a Milano in cui mi sono diplomata, la Paolo Grassi, aveva un profilo basato sul lavoro con registi provenienti da altri paesi europei. Si prendevano i treni di notte per andare a vedere gli spettacoli a Parigi. Si lavorava con registi del Belgio mischiando il francese e l’italiano. Non si parlava di Pasolini senza scomodare Fassbinder. L’obiettivo era una cultura europea – In tutti i casi purtroppo il denominatore comune era sempre una cultura di dominanza maschile! – 

L’Europa era un sogno condiviso, un desiderio di allargare gli orizzonti e di darsi un’ identità al di là delle frontiere nazionali. Questo non nel senso che io non abbia sviluppato una coscienza critica nei confronti di una visione eurocentrista o di una cultura coloniale, ma sicuramente allora era un primo passo per superare una visione nazionale della cultura. E per chi, come me, viene da una provincia borghese, è stato un passo significativo. Oggi potrei dire che Berlino (che non è la Germania), mi ha permesso di allargare ulteriormente i miei orizzonti, grazie al meraviglioso scambio culturale che la città offre. 

Una scena di “Es geht um Luis”, di Lucia Chiarla. Foto: Anke Neugebauer

Nei tuoi film si percepisce la tensione di una lotta frustrante contro il sistema”, come ad esempio quello legato al lavoro in Reise nach Jerusalem e quello incarnato dalla scuola e dai ruoli di genere in Es geht um Luis. Dove porta questo scontro?

Lo scontro nasce dalla nascita di consapevolezza e porta ad una presa di posizione,  quindi di identità. Lo scontro o confronto è un atto vitale che fa uscire dalla passività, dall’accettazione. Mettere in scena una lotta personale e privata contro un sistema è per me un modo per riflettere sui meccanismi di potere. Significa partire dal particolare per farmi delle domande sul vivere comune. Cercare personaggi che decidono di uscire dalla passiva accettazione della propria condizione, sia che si tratti dell’occupazione o del sistema scolastico, o ancora dei ruoli di genere imposti dalla società, è il modo per cercare e mostrare contraddizioni e criticità nella società. I miei personaggi partono da una sofferenza, da un senso di inadeguatezza per rendersi conto spesso che la responsabilità non è la loro, o almeno non solo. Non sono loro ad essere sbagliati o fallimentari, come la situazione o i personaggi attorno vorrebbero far credere. Spesso è il sistema ad essere fallace, e allora bisogna darsi da fare per cambiarlo. Noi possiamo attivarci per cambiarlo

La tua doppia condizione, di italiana allestero, ma anche di regista che si affaccia al mondo dalla Germania, ha influito sul tuo modo di rappresentare la società? E sulla tua visione di questo sistema”, contro il quale i tuoi personaggi inevitabilmente si scontrano?

Di certo vivere in Germania mi ha resa particolarmente attenta al funzionamento delle istituzioni e delle strutture sociali, per il semplice fatto che essendo diverse da quelli a cui ero abituata. Ne osservavo i meccanismi con occhio nuovo, senza condizionamenti. Spesso nel Paese di origine diamo molte cose per scontate perché le abbiamo sempre vissute così, viviamo in una sorta di assuefazione. Fanno parte dell’ordinarietà. Guardando con occhio nuovo si colgono le criticità o i punti di forza anche solo grazie alle differenze con quello a cui siamo abituati. E da qui nasce la riflessione più ampia. Se fossi rimasta in Italia avrei sicuramente fatto film diversi, ponendo l’attenzione su altri meccanismi di potere. 

Gli stereotipi che affliggono la vita di Luis sono molto discussi nella società tedesca: pensi che anche le nuove generazioni, anche i bambini come Luis, siano destinati a combattere con questi pregiudizi?

Mi piace pensare che la storia di Luis rappresenti una metafora della diversità in senso più ampio, non solo riguardo alla questione di genere e che il motivo del mobbing sia solo uno fra i mille possibili. In questo modo chiunque può identificarsi in Luis. Il motivo può essere il paese di provenienza, un accento, l’aspetto fisico, il carattere, un abito sbagliato o poco cool. 

Una scena di “Es geht um Luis”, di Lucia Chiarla. Foto: Anke Neugebauer

Per quanto riguarda la discriminazione di genere credo che ci sarà un inasprimento. Noi viviamo in una città come Berlino dove si lavora molto sull’inclusione. Ma non appena ci si allontana dalle grandi metropoli, si percepisce che le convenzioni sociali sono ancora fortemente radicate. Ed anzi assistiamo ad una tendenza reazionaria. Avevamo fatto un passo in avanti, ma con i nuovi venti politici, ne stiamo facendo due indietro. Basta pensare alle dichiarazioni del nuovo governo americano sulle questioni di genere. Ma se guardiamo vicino, anche in Germania sono state eliminate dalla nuova legge sui finanziamenti all’industria cinematografica (la nuova FFG – Filmförderungsgesetz) le voci che si riferivano al sostegno della diversità, uguaglianza di genere, inclusione e altre questioni discriminatorie. Se ogni parte non ha più una rappresentanza nella cultura, non ne avrà poi nel posto di lavoro, nei luoghi pubblici e nelle istituzioni. 

Due consigli: uno per gli italiani, sul cinema tedesco, uno per i tedeschi sul cinema italiano.

Sia in Germania che in Italia si sta finalmente definendo una linea di cineaste donne di grande valore. Ma non sono quelle del mainstream, bisogna andarsele a cercare perché il cinema purtroppo è ancora molto nazionale. L’arthouse non ha un gran mercato internazionale.

Agli italiani consiglio: Susanne Heinrich il film “das melanchonische Mädchen”, e un’austriaca Kurdwin Ayub, con il film “Mond” interpretato dalla bravissima Florentina Holzinger. Ai tedeschi consiglio Maura del Pero: il film “Maternal”.

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