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Chi resta e chi va. Riflessione nata tra le righe di “Spatriati”, di Mario Desiati

(di Sahara Rossi)

Recentemente mi è capitato di leggere “Spatriati”, romanzo di Mario Desiati, vincitore della 76esima edizione del Premio Strega. Una mia amica lo ha regalato al mio compagno per il suo compleanno, e, poiché parlava anche di Berlino, ed io sono attratta da tutti i libri che narrano di questa città, non potevo non leggerlo.

C’è così tanta ruvida dolcezza, fra quelle pagine. Assomigliano a carezze di vetro, che lasciano sulla pelle vividi segni violacei.

Come in “Spatriati”… e mi accorgo di somigliare a Claudia

I protagonisti del libro sembrano stagnare in una soffocante realtà, quella della loro terra d’origine, che li strangola e li prosciuga. Francesco, la voce narrante, vede Martina Franca come una sorta di rifugio dove ritornare, di tanto in tanto, nonostante alla fine decida di staccarsi per un periodo, raggiungendo l’amica nella capitale tedesca.

Claudia invece non è mai appartenuta al piccolo villaggio pugliese. Eclettica, eccentrica e irriverente, la giovane donna scopre un amore viscerale per la musica techno, per il sesso, la vita e la libertà. E tutta questa sua dirompenza, questa voglia di essere e di non limitarsi ad esistere in uno schema geometrico semplice e già disegnato, la porta per le strade gelide di Berlino.

Mentre leggevo mi sono identificata molto in Claudia, lo ammetto. Sono nata e cresciuta in una grande città, ma che mi è sempre andata stretta come un vecchio vestito d’infanzia, sgualcito ed impolverato nell’armadio. Durante il corso della mia vita molti mi hanno guardato pieni di meraviglia, quando dicevo loro da dove venivo. Roma in fondo è pur sempre la città dell’arte e della storia, no? È così piena di musei, ristoranti, negozi, attività… e allora perché io proprio non riuscivo a starci? Perché mi sembrava d’essere un pesce oceanico in un fiume d’acqua dolce?

spatriati sahara rossi

Berlino è arrivata una sera di inizio estate

Non ho mai pensato a Berlino, in realtà. Non l’ho mai programmata. Berlino, come tutte le cose belle e dolci che in un certo senso ti salvano la vita, è arrivata una sera di inizio estate e mi ha chiesto, cortese, di seguirla. Una proposta lavorativa di qualche mese che sarebbe iniziata per quell’autunno avrebbe presto cambiato il corso della mia esistenza. Non ci ho pensato due volte. E sono grata a quella ventiquattrenne, che quel giorno era su una terrazza in una pizzeria, per aver preso quella decisione così spontanea. Si va via perché si è stanchi e forse spaventati dal perpetuo e lento andare delle cose. Si va via per quel banale ma mai scontato “ricominciare”.

Vorrei normalizzare il tutto e rassicurare i miei lettori: non sempre andare via è la risposta ai problemi, intendete bene. Alcuni di noi attuano la fuga perché evadere in una nuova realtà, dove non ci conosce nessuno, è più facile e sbrigativo che vedersela con le solite rogne di tutti i giorni. Più l’ambiente è ostile e fatiscente e più ci sembra di non avere scampo. Alcuni però, non sentono questo bisogno.

Ho amici che son rimasti e che stanno comprando case e mettendo su famiglia e li vedo felicissimi e da una parte quasi li invidio. Perché io, per potermi dire un minimo felice, o per concedermi qualche sorriso di tanto in tanto, son dovuta salire su un aereo con due/tre valigie e uno zaino e nascondermi a più di mille chilometri di distanza da quella che ho sempre chiamato casa. Che poi, era davvero casa il trilocale che i miei hanno comprato vent’anni fa e dove ho fatto i primi passi, portato i miei fidanzati, e pitturato le pareti delle stanze? Siamo abituati a dare un senso così profondo ai luoghi che poi, sotto sotto, un bel po’ ci hanno fatto del male.

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Né eroi, né codardi. Ce ne andiamo perché siamo “diversi”

Io casa mia mica lo so dov’è, ma per anni mi sono illusa che fosse proprio lì. In quel quartiere, in quei treni della metropolitana e in quelle piazze dove i giovani si fermano a fumare di nascosto e i vecchi sulle panchine guardano il tempo che passa assieme al vento e alle automobili e al fogliame rinsecchito.

Siamo diversi. Ed io non mi sento una codarda per aver scelto una nuova città. E se vogliamo, una nuova casa. Così come non ho l’arroganza di definirmi più coraggiosa rispetto a chi ha continuato a rinforzare le proprie radici nel luogo in cui è nato.

Sono a Berlino da due anni ormai, e di situazioni belle, brutte e incredibili qui ne son successe. Ho trovato e poi perso due lavori, mi sono iscritta all’ANPI e al sindacato, ho seguito un corso di pittura, sto facendo del volontariato. Mi tengo in piedi nonostante abbia attorno a me mille cocci da rimettere assieme con un po’ di colla, quasi tutti i giorni. Ma penso che questo faccia parte del gioco.

A Roma ho criticato tante cose e ce l’ho ancora con lei per tantissime altre, ma sarei un’ipocrita se dicessi che a Berlino tutto è perfetto. Berlino non è di certo El Dorado e qui molti aspetti del quotidiano non funzionano, a partire dai mezzi di trasporto, alla sanità, alla burocrazia lenta e cartacea che rende la voglia di imparare la lingua ancora più debole e scarsa. E allora, mi chiedono, “perché sei andata via? Non potevi rimanertene a Roma?”. Alla fine lì ho pur sempre una casa, i miei genitori, i luoghi che conosco, la sicurezza economica. Perché rimanere disoccupata in Germania, pagare un’assicurazione sanitaria ed un affitto e scontrarsi ogni inverno con questo cielo così cupo che proprio non ne vuole sapere di sorridere un po’?

Forse sono masochista. O forse io ho solo fatto la mia, di scelta, anni fa, e non tornerei mai indietro, pur sapendo tutto quello che ho affrontato, da quando sono qui. Non credo di avere ancora bene in mente dov’è il mio posto nel mondo. Non penso nemmeno che Berlino sarà il mio “per sempre”. Ma, tutto sommato, ha importanza? La mia psicoterapeuta mi diceva sempre di permeare nel qui ed ora, ed in questo grigio e confuso presente, io un minimo di serenità la ritrovo nelle piccole cose: nell’appartamento che sto arredando con il mio compagno, negli amici che ho scelto e che mi fanno così tanto bene al cuore, nei viali alberati di Berlino in primavera, nei laghi e nel fiume che d’autunno diviene un lento scorrere di foglie e riflessi.

C’è chi resta e chi va. Ma siamo tutti artefici del nostro destino. Siamo tutti coraggiosi nel nostro peculiare modo d’intendere la vita.

Ed io, per ora, ho deciso di restare.

Sahara Rossi è nata e cresciuta a Roma, ma attualmente vive a Berlino. Ha ricevuto diversi premi letterari e tra gli altri riconoscimenti è stata finalista al Premio Campiello sezione giovani nel 2017 e nel 2020, rispettivamente con i racconti “Cuore di Terra” e “Yolanda”. Appassionata di arte, letteratura, pittura e poesia, nel luglio scorso, a Berlino, ha presentato nella capitale tedesca la sua nuova raccolta di poesie “Lungo il Fiume“. In quella circostanza, il duo alternative I-Taki Maki ha accompagnato la presentazione con la sua musica. Per Il Mitte ha già pubblicato “I cieli di Berlino

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