I bambini della Herman Nohl Schule incontrano Lia Levi a Berlino. E intonano “Bella Ciao” insieme agli insegnanti

Lia Levi a Berlino

di Riccardo Coradeschi

La prima volta che incontrai Lia Levi non potevo avere avuto più di 9 o 10 anni. Era stata invitata alla nostra scuola elementare (grazie, Maestra Elisa!) per parlarci dei suoi libri e della sua esperienza durante le persecuzioni razziali. Mi ricordo di essermi sentito piuttosto in soggezione. Trovarmi alla presenza di un Autore, qualcuno che si occupava del sacerdotale compito di creare i libri che tanto amavo, mi trasmetteva timore ed ammirazione.

Sono passati vent’anni, ed il paese è un altro, ma nell’auditorium della Herman Nohl Schule sento un ragazzino (che non può avere più di 9 o 10 anni) fare all’autrice la stessa domanda che le posi io allora: “Che consigli darebbe ai bambi…” si interrompe “giovani che vogliono scrivere?”.
Lia Levi sorride e si scusa in anticipo se la risposta sarà deludente “Per scrivere è innanzitutto necessario leggere. Saper leggere e scrivere non significa saper scrivere, è un muscolo che richiede pratica e tecnica. Non ci sono scorciatoie”.

Proprio la necessità di non addolcire la pillola è uno dei temi dei due incontri con l’autrice, organizzati da Demea e svoltisi domenica 16 giugno alla libreria Mondolibro, dove ha presentato il suo romanzo, vincitore del Premio Strega, Giovani Questa sera è già domani, con moderazione di Elettra De Salvo, e lunedì 17 giugno, alla Herman Nohl Schule. Racconta di come i suoi genitori avessero cercato di proteggerla dalle realtà più drammatiche della dittatura fascista, una scelta nata dal desiderio di proteggerla ma che ha conferito alla sua infanzia un senso di angoscia sconosciuta e innominabile.

Lia Levi, scrittrice “decana” (come si definisce con rammarico), è stata invitata a Berlino grazie all’impegno delle docenti della scuola Herman Nohl. Autrice di decine di romanzi per bambini e adulti, è diventata ormai un nome noto e apprezzato all’interno dei circuiti scolastici, dove racconta da decenni il suo rapporto con la letteratura e ciò che ha significato per lei vivere da ebrea l’avvento delle leggi razziali.

Eppure si guarda bene dal confondere i ruoli. “La letteratura non può e non deve essere didascalica”, ripete, sia al pubblico adulto che agli scolari, “la riflessione, il messaggio di un libro devono venire dal lettore, e non da me. Io ho l’intenzione di raccontare, possibilmente qualcosa che piace, ma non posso inserire un mio messaggio nel libro”.

Il ruolo di custode della memoria per le nuove generazioni, racconta, è nato quasi per caso, con la presentazione nelle scuole del suo primo romanzo, Una bambina e basta. Da più di 20 anni, però, è testimone di un passato oscuro che rischia di essere distorto da ideologie contemporanee. Il confronto tra l’Italia di oggi e quella del ventennio sono più che mai al centro del dibattito.

Lia Levi sembra rassegnata alla presenza del razzismo: “È sempre uguale a sé stesso. Una volta erano gli ebrei, ora sono gli immigrati, i musulmani, i gay… tutti vittime di teorie ridicole. Allora però eravamo sotto una dittatura, ora siamo in democrazia, qualcosa si può fare. Quando visito la Sicilia nelle scuole mi raccontano di famiglie che accolgono gli immigrati che riescono a sbarcare, senza fare rumore. Sono i piccoli gesti spontanei di umanità che danno speranza”. Quando le viene chiesto se quindi crede che la situazione in Italia non sia così tragica, la risposta è piuttosto piccata: “Non ho detto che le cose vanno bene, ho detto che bisogna lottare!”.

La lotta è accomunata con l’identità a più riprese. Una giovane immigrata italiana, tra il pubblico da Mondolibro, confessa di provare vergogna, talvolta, per essersene andata dal proprio Paese, invece di rimanere e lottare. Levi riconosce che è una questione con radici profonde, la accomuna al dilemma degli antifascisti che dovevano scegliere tra la lotta e la salvezza all’estero, ma riconosce l’impossibilità di giudicare una scelta del genere.
“Ciò che conta” dice “è mantenere la propria identità, essere fedeli a sé stessi, che sia in Italia o all’estero”.

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Lia Levi viene accolta con grande entusiasmo anche dai suoi lettori più giovani della Herman Nohl Schule e dal loro preside, Matthias Ziegfeld, che durante il discorso di apertura ha criticato aspramente le derive populiste e sovraniste della politica internazionale.
Questo discorso, nel contesto di una occasione dedicata alla memoria, mi fa pensare alle recenti reazioni contro esponenti della scuola in Italia.

Non posso che chiedermi se una retorica del genere, accolta calorosamente in questa realtà italiana parallela e quasi coloniale, sarebbe stata tollerata in patria. I miei dubbi residui sono spazzati via quando il coro di bambini intona Bella Ciao, a cui si uniscono dopo poco anche il Preside e buona parte del pubblico. Ad una mia espressione incuriosita, Tatiana Canali, una delle docenti e organizzatrici, mi spiega: “In realtà l’interesse è partito da loro. Diversi ragazzi avevano sentito la canzone alla radio, credo sia stata riportata in auge da una serie. Abbiamo spiegato loro il significato storico e culturale di Bella Ciao“.
Come in un’antitesi al viaggio di Marlow, la tenebra si fa sempre più lontana mano a mano che cresce la distanza dalla madrepatria.

Mentre guardo gli striscioni di benvenuto per l’autrice (e mi interrogo su quale sia l’equivalente tedesco della DIGOS), Lia Levi sale sul palco.
Il suo intervento è breve, conciso. Desidera lasciar spazio alle domande dei ragazzi, che si precipitano in fila verso il palco. La platea è quasi svuotata, ed una massa di scolari scalpitano impazienti. A scanso di equivoci, non sono degli automi. Ho visto una ragazzina mostrare il dito medio ad un compagno, ed un’altra chiedere all’insegnante se dovevano tutti fare una domanda (no, non dovevano, e coloro che lo fanno sembrano provare un interesse genuino).
Sono ragazzini cresciuti in Germania, probabilmente alcuni di loro sono nati qui e l’Italia è terra atavica in cui non passano più di qualche settimana l’anno dove, se sono fortunati, possono essere viziati dai nonni. Alcuni accenti, nelle parole meno comuni, sono sghembi e conferiscono alla loro parlata un ritmo sincopato, ma sono innegabilmente italiani, tanto quanto sono tedeschi. È la nuova generazione di berlinesi, cresciuti in una realtà diversa da quella italiana, di cui però portano ancora traccia nel DNA culturale.

L’autrice risponde alle domande senza edulcorare la verità.
“Da piccola non capivo cosa stesse succedendo. Mi hanno detto che non potevo più andare a scuola: figuriamoci, io ero contenta! Solo poi capii. Il problema di crescere con i divieti è che ti ci abitui, diventano la norma, parte della tua vita”.
Quando le viene chiesto come si comporterebbe davanti ad un neo-fascista, fa subito un distinguo: “C’è tutta un’area delinquenziale che adotta i simboli e gli slogan fascisti senza capire cosa sta facendo. Non hanno contesto, non è un’identità che capiscono o scelgono. Per questi non si può fare nulla. Se però c’è qualcuno che, affascinato dalla retorica, inizia ad abbracciarne l’ideologia, con questa persona si può cercare di comunicare, provare a farlo ragionare con dei fatti concreti…” sorride mestamente “Ma senza grandi speranze”.

Uno striscione creato dagli alunni (questa volta non sembra esserci motivo di temere una retata) riporta una citazione di una lettera che Levi, bambina, aveva scritto alla sé stessa adulta: “Devo ricordarmi che da grande voglio fare la scrittrice“.

La domenica, da Mondolibro, le ho confessato che aveva visitato la mia scuola vent’anni prima, e l’ho ringraziata per l’incoraggiamento che mi diede. Levi sembra sinceramente sorpresa che lei, custode della memoria, venga a sua volta ricordata così.
Mentre scrivo ora mi chiedo quanti della mia classe di allora se la ricordino, e quanti delle varie scuole che ha visitato dagli anni ’90 ad oggi.