La Berlino senza filtri raccontata da Sara Vannelli

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di Oriana Poeta

Spesso mi è capitato di sorprendere mia madre leggere un libro partendo dalla fine. Le prime volte non ho detto nulla, forse stava finendo. Ho cominciato a regalarle qualche libro voluminoso, impossibile da divorare in un’ora. L’ho sorpresa nuovamente a leggere dalla fine. Dopo qualche ora ritrovavo il libro sul divano e con il segnalibro a metà. Non ho mai capito come facesse, ma ho sempre evitato discuterne. Quando ci è capitato di leggere lo stesso libro ho sempre tralasciato la trama. Avremmo litigato.

Solitamente non leggo ad alta voce, tranne, alle volte, per migliorare la pronuncia di una lingua straniera. Tentativi fallimentari. Il mio accento rimarrà tale. C’è, però, un periodo in cui alla classica lettura silenziosa preferisco quella ad alta voce. E non in una lingua straniera, ma in italiano. E’ il momento in cui sono rilassata, magari al mare. Leggo tante pagine finchè riesco, poi ascolto la voce della mia migliore amica che prosegue. Leggiamo almeno due libri durante una vacanza. La democrazia impone di sceglierne uno a testa. Al momento sono i libri più ricordati.

Guarda che me ne vado (Leconte, 2009) è uno di quei libri che potrei regalare ad entrambe.

A mia madre perché le permetterebbe di godersi il suo modo di leggere. Non c’è una trama che impone un percorso narrativo dall’inizio alla fine. Sono frammenti, dialoghi, spiegazioni, riflessioni, descrizioni, code-switching linguistici. Brevi pensieri che affollano una mente in continua agitazione e che vengono riportati nero su bianco. Senza filtri. Racconti che hanno l’ambizione di regalare piccole scosse, capaci di stimolare riflessioni o ricordi, di potersi immedesimare o meno, o di volersene, immediatamente, allontanare. Non c’è una vera imposizione di un personaggio, sebbene la figura generica della madre risulti decisiva. Non sembra esserci nemmeno un filo narrativo, nonostante l’amore, spesso doloroso,  faccia da collante. Per mia madre sarebbe perfetto e, di sicuro, non litigherei.

Alla mia migliore amica lo regalerei con la forte richiesta di non leggerlo da sola. Di aspettarmi per  leggerlo insieme. Queste pagine si prestano bene alla nostra lettura corale. La voce non si affaticherebbe. Presteremmo i nostri timbri vocali a diversi personaggi, imiteremmo il fastidioso rumore della televisione e degli slogan pubblicitari. Ci riposeremo per bere, fare un bagno e per poi riprendere la lettura senza chiederci dove eravamo arrivate. Potremmo decidere di scegliere dal titolo del racconto che più ci ispira. Riflettere sui tipi strani a cui abbiamo dato voce e litigare.

A me, di sicuro, capiterebbero i personaggi più antipatici, anzi sfigati.

Si procede così nelle pagine di Sara Vannelli (1979), alla quale va riconosciuta la grande capacità di regalare una raccolta di brevi ed incisive storie. Storie che raccontano i disagi, le preoccupazioni, lo smarrimento della sua generazione. Una generazione in continuo movimento, capace di allontanarsi e collegarsi con un semplice clic, di preferire il silenzio alle grida, o la solitudine piuttosto che la compagnia. Una generazione alla quale presta la sua voce, la sua itinerante prospettiva. E’ come se cambiasse repentinamente treno, alle volte, dimenticandosi il biglietto, ma decidendo comunque di proseguire, di dire la sua. Ne ha per tutti ed ogni litigio, anche il più banale, riesce a scatenare quell’esplosione di parole che conduce sul binario della scrittura. E se qualcuno non fosse d’accordo? E’ pronta ad ascoltare, a cambiare, ma se stanca anche a dire, non a minacciare: Guarda che me ne vado.

“Secondo Richard a Berlino l’amore si fa al freddo. Si aspetta che nevichi e tutti cominciano a fare l’amore contemporaneamente: hanno 10 minuti di preliminari, 3 di accelerazione, 2 per l’orgasmo e uno per controllare se gli orologi sono ancora tutti sincronizzati. Poi tutti a vedere la Bundesliga”.

da Guarda che me ne vado

Presentazione presso la Mondolibro, Torstr. 159 – 25 aprile ore 20