Bieniek, il genio del doppio. Intervista all’artista berlinese
di Vita Lo Russo(pubblicato originariamente su “Riprendere Berlino”)
Tutto è nato dalle Doublefaced, facce doppie in una soltanto, un occhio è vero e uno dipinto, uno è blu l’altro e nocciola, uno è sveglio, uno addormentato. Mentre lei, la portatrice dell’occhio vero, esce dalla doccia, beve, un caffè, fuma una sigaretta. Le foto ritwittate e promosse da Ai Weiwei nelle ultime due settimane hanno fatto impazzire la rete e sono state viste da più di 5 milioni di persone. Alcuni, pagando il giusto prezzo, le hanno già comprate. Così ho deciso di incontrarlo, Sebastian Bieniek.
Per scoprire chi è il genio che vive a Berlino entrato nelle grazie dell’artista contemporaneo più famoso del mondo. Nato il 24 aprile 1975 in Polonia da genitori tedeschi, lo considerano tedesco tra i polacchi, polacco tra i tedeschi. Lui, a prescindere dalla doppia nazionalità, si sente quello che gli altri vogliono. “Mir ist egal, cosa sta scritto sul passaporto”, dice, anche se sì, riconosce il sangue è slavo. Di certo non vive con il senso della frustrazione dei figli degli oppressi – Polonia – che vanno a vivere da grandi nel paese degli oppressori – Germania. “Certo, mi conviene passare per polacco in Israele o per tedesco in India, ma la nazionalità mi pare tanto una costruzione politica, inutile”.
Bieniek si diverte, sorride, parla e sa comunicare. Viene da una famiglia cattolica. C’era un tempo in gioventù in cui ha frequentato anche la chiesa, e considera dio il più grande artista di tutti i tempi. Detto ciò, è laico fino alla punta dei capelli. Ma la favola della creazione del mondo gli è piaciuta a tal punto che i vari geni della storia – Socrate, Picasso, Pasolini, Duchamp, Shakespeare – a suo avviso hanno solo individuato delle cose e messe in ordine. Secondo una logica. “Io posso decidere di mettere dei fiori in un vaso e appoggiarli a centro di un tavolo, come prendere una latrina, capovolgerla e trasformarla in una fontana (Duchamp, appunto). E questa è l’intelligenza dell’uomo. Dare ordine alle cose al fine di, per quanto mi riguarda, essere più felice”.
Ordine e felicità, il suo motto artistico e poetico.
Bieniek ha lavorato un po’ con Marina Abramovic. Non le dà della prostituta ma poco ci manca. La considera una furbetta in senso buono. Una brava a conquistarsi due pubblici interessanti e paganti: Stati Uniti a ovest, Giappone a est. Per il resto è una donna tutta silicone, nelle tette e nella testa, che dice a tutti ti amo ti amo ti amo, che è stata affiancata da un compagno dall’intelligenza straordinaria di Frank Uwe Laysiepen, meglio conosciuto come Ulay, che sa catturare le emozioni del pubblico durante gli show – ed economicamente la strategia Abramovic funziona, ammette – ma che lascia poco e niente.
“Gasù ha lavorato di più” torna a ripetere, “e di certo lei non si è inventata niente”. Eppure l’esperienza Abramovic lo ha spinto a relizzare la sua performace più famosa: “The Hand without a body”. Siamo a Berlino nel 1999. “Fino a 23 anni dipingevo soltanto. Stavo solo soletto nel mio atelier, mi godevo l’esistenzialismo e spennellavo felice. Fin quando non ho cominciato ad annoiarmi. Mi sono reso conto che mi piace stare tra la gente, fare la rock star, stare su un palcoscenico (e in questo, non lo dice, sono prostituta quanto l’Abramovic)”.
Così al terzo Festival der jungen experimentellen Kunst si rinchiude in un pilastro di plastica bianca per 17 giorni da dove trapela solo un braccio. I visitatori sono liberi di procurargli dei tagli, di bucare la carne, di farlo sanguinare. Il video è impressionante. Solo il primo giorno arrivano due ragazzi che lo sfregiano per bene, mentre lui all’interno sente voci che dicono “Neh, mica questa è carne vera”. Gli spengono pure una sigaretta addosso. Il 17esimo giorno il suo braccio è tutto un fetore di sangue raggrumato. Non si distingue più neanche un millimetro di pelle.
“Un’esperienza terrificante, che mi ha fatto però capire una cosa importante: più dici la verità e meno ti credono. Vero o non vero quelli che mi hanno tagliato il braccio (e mentre racconta, tira su la camicia e mi mostra le cicatrici, una marea, a 15 anni di distanza) credevano, o fingevano credere, che quello non era un braccio umano, ma un manichino ben fatto, di pelle e di sangue caldo”. Ma di sangue ancora non è stanco. Pochi mesi più tardi, tre giorni e tre notti si fa rinchiudere completamente nudo in una stanza con mezza tonnellata di carne macinata di manzo. Born To Be Boulette il titolo della performance (si vede che ha studiato da Marina). La carne si decomponeva, la notte non dormiva per via del ringhio dei ratti, il rosso della carne si trasformava in grigio, l’odore di ferro in odore di vomito. “Sono dovuto scappare da lì. E’ stata l’esperienza più orribile della mia vita. E’ ho capito che spingersi oltre certi limiti, anche artistici, ti fa diventare completamente pazzo”.
Ciononostante non ha smesso di fare performance, ma come Duchamp con la latrina, ne ha capovolto il fine. Dopo aver toccato il fondo del male dell’esistenza, ha più o meno consapevolmente deciso d inseguire l’ironia, la felicità, la provocazione. A inizio anno, nel freddo aprile 2013, davanti alla Deutsche Bank Kunsthalle di Berlino, si è presentato – in un giorno in cui in teoria la banca apriva le sue porte per accogliere nuovi artisti e le loro opere d’arte – con una tela di 2 metri per due tutta d’oro laccata con al centro una merda di piccione e il logo della banca. “Se lo sono meritato”, ricorda ridendo. “Ci hanno fatto aspettare in fila dalle 5 del mattino a temperature siberiane per ore senza farci entrare”. Una provocazione scomoda la sua, che prevedeva anche la presa per i fondelli del responsabile dell’ufficio stampa della banca.
Ma come sono nate le Doublefaced? “Ora che artisticamente mi pare di essere un po’ più cresciuto, uso la mia vita per produrre arte, per fare cose belle e per essere, prima di tutto io, felice. Poi se riesco a far divertire anche gli altri, tanto meglio”. E siccome Bieniek non partecipa a mostre, non si appoggia a nessuna galleria (Noiose, aristocratiche, decadenti, gestite il più delle volte da vermi, pigri, approfittatori, dice lui), se da un lato attinge dalla sua vita per creare l’arte, dall’altro usa un banale smartphone per rielaborare le idee. “Tanto oggi tutto è comunque riproducibile”, sentenzia. “Se si esclude l’arte della star, che serve ai collezionisti per ragioni finanziarie, la nuova deve tornare ad essere popolare, attaccata alla vita reale, al fango. Come sono attaccate al fango le radici dei fiori di loto. E’ solo nella vita reale che l’arte può tornare ad essere interessante, utile, innovativa”.
CONTINUA A LEGGERE SU “RIPRENDERE BERLINO”