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TEUTONICHE SCHEGGE – A fil di pagina
“Maria, ihm schemckt’s nicht” (Maria, non gli piace) è il titolo di un libro scritto da Jan Weiler, giornalista del Süddeutsche Zeitung. In 276 scorrevolissime pagine, l’autore racconta del suo peculiare incontro con l’Italia e gli italiani: si è sposato, infatti, con la figlia di un Gastarbeiter originario di Campobasso. Figura chiave dell’intero romanzo (realistico, ma con licenza di fantasia) è Andò, il suocero che all’inizio degli anni ’60 è riuscito, mentendo sulla data della sua abilitazione professionale, a raggiungere la Germania. Stipato nelle camerate di una fabbrica ad Osnabruck, dove le sue qualifiche professionali non contavano nulla, Andò ha imparato il tedesco solo improvvisandosi cameriere, ma non ha mai perso il suo accento meridionale, né ha mai fatto pace con desinenze e genere dei nomi. Istrionico, convinto che Freud abbia plagiato Machiavelli, Andò accoglie Jan in famiglia, il che significa, per il teutone genero, entrare a far parte di un esteso clan famigliare molisano con origini sicule.
Ogni estate si trascorre fuori Campobasso, tra un gelato sul Corso e una partita a scopa con zii, cugini e nonni che sono maestri nell’arte del bluff, mentre le donne spadellano in cucina. Jan impara presto che non ha modo di sottrarsi al ruolo di oca all’ingrasso che Nonna Anna gli ha assegnato: rifiutare l’ennesimo cucchiaio di trippa o non gioire del panettone inviato fin in Germania sarebbe un’offesa irreparabile. Jan, del resto, adora il cibo italiano, anche se non riesce a capacitarsi di come un popolo che sta in piedi a carboidrati possa non soccombere alle leggi di Darwin. Anche dell’incomprensibile morbidezza dei materassi italici Jan non riuscirà mai a farsi una ragione, tanto da dotarsi di un coccodrillo gonfiabile da spiaggia per placare i dolori alla schiena.
Il romanzo è uno sguardo ironico, ma compartecipe, sugli eterni stereotipi sugli italiani e sui tedeschi: Andò in Germania tesse le lodi del clima, della cucina e della forma mentis italiana, ma una volta in patria, non fa che sbandierare la puntualità ed efficienza teutoni, che in Italia ancora mancano. Dal canto suo Jan, che a poker vince senza barare, si ustiona al sole mediteranneo ed è convinto che l’inverno appenninico sia mite, e scambia la parola “fregna” per “freccia”, sarà pur sempre per i parenti di giù un “Kartoffel”. Dopo l’ostilità iniziale del suocero, orgoglioso e geloso della figlia, Jan impara a stimarlo, fino a diventarne il solo confidente: è a lui che Andò racconta dell’infanzia e dei suoi sogni di riscatto, quando facendo scorribande con gli amici per i vicoli di Campobasso si portava sempre dietro una cartolina di New York, e del matrimonio in Germania all’insaputa dei genitori rimasti in Italia. Con lui Jan impara un’altra lingua: il canonico modello “ricezione-comunicazione” per Andò e tanti italiani non funziona, la pur pragmatica mentalità tedesca incontra quella creativa, ilare, talvolta fanfarona e sconclusionata degli italiani, che sanno sempre uscire, magari con un colpo di genio mascherato da un sorriso, dai grovigli che si creano.
Nel 2009 è stato girato anche un film, che vede Lino Banfi nei panni di Andò. Ma il ritmo piuttosto lento del film, solo a tratti spezzato da qualche boutade memorabile, non ha paragoni con il libro che si legge d’un fiato, magari per un attimo beandosi della complementarità italo-tedesca. In fondo, può funzionare: nonostante la praticità dello pseudocaffé nel bicchierozzo riciclabile zum Mitnhmen, Jan per due pagine celebra la poesia del mescolare un espresso mattutino, aspirandone l’aroma seduti al bancone del bar. E del resto, una delle tante arti retoriche italiche è quella del saper lamentarsi (vedi: del teutone di turno), eppure adattarsi (vedi: affezionarcisi).
Bella recensione, complimenti