Hans-Joachim Bohlmann: l’uomo che sfregiava i quadri. Storia di un vandalo seriale

Immagine fotoritoccata a scopo illustrativo, che non rappresenta il reale danno causato da Bohlmann all'autoritratto di Rembrandt

Il nome e la foto di Hans-Joachim Bohlmann sono stati conservati per anni – almeno fino alla sua morte, avvenuta nel 2009 – negli uffici di tutti i musei della Germania. Fra tutti i casi di criminali seriali tedeschi, infatti, Bohlmann ha rappresentato un caso unico: è stato un vandalo seriale che ha preso di mira opere d’arte di grandissimo valore, danneggiando più di 50 dipinti di grandi artisti, ma anche statue e arredi sacri, provocando danni per un valore di oltre 270 milioni di Marchi tedeschi dell’epoca (circa 138 milioni di Euro).

Sulle sue motivazioni hanno speculato in molti ma – caso più unico che raro nella storia del true crime – è stato lo stesso Bohlmann a smentirli quasi tutti quando, alla fine della vita, era riuscito a recuperare, se non proprio un buon equilibrio mentale, almeno la capacità di controllare i propri impulsi e integrarsi nella società.

La paura della paura: il bambino nel pozzo nero

Nato a Breslavia nel 1937, Bohlmann ricordò, in un’intervista allo Spiegel, di aver passato l’intera infanzia a sentirsi ignorato e sottovalutato, descritto come pigro e stupido. Le paure e le insicurezze dominavano la sua esistenza: non solo il terrore “normale” di un bambino che viveva nella Polonia occupata dai nazisti, ma anche le paure di un ambiente familiare che non lo faceva sentire protetto, incrociate a una serie di insicurezze particolarmente pronunciate.

Cranach Bohlmann
I ritratti di Martin Lutero e sua moglie, di Cranach il Vecchio, sono fra i dipinti danneggiati da Bohlmann.
Foto: Lucas Cranach the Elder, CC0, via Wikimedia Commons

Il piccolo Hans-Joachim era terrorizzato ogni volta che in classe doveva rispondere a una domanda, leggere in pubblico. Aveva paure ossessive e irrazionali legate soprattutto al fuoco e all’acqua. Il padre, uomo severissimo e forte, reagiva ai timori del figlio deprecandone la scarsa tempra e minacciandolo di “spezzargli ogni osso del corpo”. La madre non dedicava molte attenzioni al piccolo, tanto che, quando il bimbo, a soli due anni, cadde in un pozzo nero, lei non se ne accorse per parecchio tempo, perché distratta da una conversazione con un’amica. Il Bohlmann adulto conservava un ricordo di quell’episodio tanto antico e lo riteneva simbolico. “Dio” dichiarò alla giornalista dello Spiegel “sapeva già che cosa avrei fatto da adulto: se mi avesse lasciato annegare nel liquame, quei meravigliosi quadri sarebbero stati salvati, ma non lo ha fatto, mi ha salvato e mi ha perdonato”.

Una giovinezza disturbata

Fin dalla prima giovinezza, Bohlmann sviluppa diversi disturbi della personalità, nei quali si distinguono soprattutto i tratti ossessivo-compulsivi. A 16 anni, si fece ricoverare volontariamente in una clinica di Kiel, dove ricevette terapie elettroconvulsive e coma insulinici indotti. Per farlo, aveva abbandonato un apprendistato da idraulico, motivo per cui i genitori lo cacciarono da casa. Bohlmann alternò, negli anni successivi, ricoveri volontari con situazioni abitative precarie e lavori saltuari. A 29 anni, incontrò una donna all’interno della congregazione della chiesa evangelica e ben presto la sposò. Faceva lavori saltuari, stava spesso male e viveva perennemente stordito dai sedativi e dagli antipsicotici, che non alleviano comunque i suoi sintomi, ma definiva sua moglie “la cosa più preziosa” della sua vita. Insieme, i due amavano visitare musei.

Il “taglio” delle inibizioni

Nel 1974 avvenne un episodio che tutti gli esperti concordano nel definire determinante. Il neurochirurgo Dieter Müller all’ospedale universitario di Amburgo-Eppendorf, affermò di poter curare Bohlmann con una lobotomia parziale (procedura che fu poi definita, inutile, pericolosa, sbagliata e obsoleta). Con l’eliminazione di alcuni tratti nervosi tra il cervello frontale e il sistema limbico, sosteneva Müller, sarebbe stato possibile “cancellare” le paure, le compulsioni e quello che veniva definito il “cuore criminogeno”, permettendo così il “riadattamento sociale” del paziente.

A Bohlmann non sembrava vero di poter aspirare a vivere senza le sue paure e le sue angosce, così firmò il consenso, compreso di rinuncia a qualsiasi futura ricerca di risarcimento e si sottopose all’intervento, per venire poi rimandato a casa dopo pochi giorni senza alcuna forma di assistenza. Tanto lo stesso Bohlmann quanto lo psichiatra Aquisgrana Henning Saß, che molti anni dopo fu perito in uno dei processi a Bohlmann, concordarono in seguito nel dire che gli unici due effetti di tale procedura furono una riduzione delle capacità cognitive di Bohlmann (il suo quoziente intellettivo, rilevato dopo l’intervento, era di 102) e la perdita delle inibizioni. Gli atti vandalici, però, non iniziarono prima del 1977.

Rembrandt Bohlmann
Foto: Attributed to Rembrandt, Public domain, via Wikimedia Commons

Bohlmann e l’arte: una disperata richiesta di attenzione

L’episodio detonante fu la tragica morte di sua moglie, avvenuta per un incidente l’11 marzo del 1977. La donna cadde dalla finestra mentre faceva le pulizie e l’equilibrio psicologico già precario di Hans-Joachim Bohlmann andò definitivamente in frantumi.

Nella medesima intervista già citata, raccontò di aver voluto soprattutto attirare l’attenzione. “Per me, la cosa più preziosa era la vita di mia moglie, per la società era l’arte”. I suoi atti di vandalismo iniziarono appena cinque giorni dopo la morte della donna, il 16 marzo 1977, in un parco cittadino. Il 29 marzo, Bohlmann si recò alla Kunsthalle di Amburgo, dove spruzzò acido solforico su dipinto “Il Pesce d’Oro” di Paul Klee.

Bohlmann Paul Klee
Il pesce d’oro, di Paul Klee.
Foto: Public domain, via Wikimedia Commons

Ogni volta che i giornali parlavano dei suoi crimini, Bohlmann si sentiva esaltato, non aveva paura, non aveva neppure bisogno di prendere gli antidepressivi. Seguirono altri attacchi ad Amburgo, Lubecca, Lüneburg, Essen, Dortmund, Hannover, Bochum, Kassel, Düsseldorf e Hamelin, in un crescendo febbricitante di devastazione che si concentrava sui volti delle opere d’arte: “la parte più preziosa”.

Fra gli altri, Bohlmann danneggiò i ritratti di Martin Lutero e di sua moglie Katharina von Bora di Lucas Cranach il Vecchio nel Museo di Stato della Bassa Sassonia di Hannover. Il 24 agosto 1977 danneggiò il dipinto “L’arciduca Albrecht” di Rubens a Düsseldorf e il 7 ottobre 1977 quattro dipinti nello Schloss Wilhelmshöhe di Kassel, valutati oltre 25 milioni di Euro, tra cui “Giacobbe che benedice il secondogenito di Giuseppe” di Rembrandt, un autoritratto dello stesso artista e “Noli me tangere” di Willem Drost. L’attività di Bohlmann non si limitò a dipinti e musei: di notte, ad Amburgo, incendiò un altare a Lubecca e spruzzò centinaia di lapidi con svastiche. In seguito, a Monaco, danneggiò con l’acido anche l’Altare di Paumgartner, “Maria come madre dei dolori” e la “Pala di Paumgartner” di Dürer nella Alte Pinakothek.

Più tardi, dopo aver scontato cinque anni di galera per danni alla proprietà e nel timore di attirare l’attenzione, se avesse di nuovo acquistato acido solforico, Bohlmann passò ad atti vandalici più generici distruggendo macchinari industriali, appiccando incendi, segando centinaia di alberi e avvelenando animali in parchi e recinti, soprattutto cigni e cavalli.

Dopo il suo recupero, si disse particolarmente addolorato soprattutto per questi ultimi gesti. “Ma non avrei mai fatto del male a un essere umano”, sottolinea.


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Il “rischio zero” e il ritorno alla vita

Hans-Joachim Bohlmann non ha segnato solo la storia criminale e quella dell’arte, ma anche quella giuridica e della psichiatria. Dopo aver scontato tutte le condanne che gli furono inflitte e aver chiesto al tribunale di essere mandato in una struttura psichiatrica, Bohlmann fu detenuto nel centro di psichiatria forense di AK Ochsenzoll, Amburgo, per circa 15 anni. Il suo avvocato Wolf Dieter Reinhard confidò allo Spiegel di trovare la misura estremamente ingiusta, perché Bohlmann non aveva mai rappresentato un rischio per le persone, ma solo per la proprietà (per i suoi reati, la pena massima avrebbe dovuto essere di tre anni). Secondo Reinhard, la politica del “rischio zero” aveva scelto di tutelare la proprietà travalicando il rispetto delle libertà costituzionali del suo cliente.

Quando finalmente abbandonò la struttura, Bohlmann descrisse i suoi atti come un tentativo di attirare l’attenzione, una disperata richiesta di aiuto per descrivere “una devastazione mentale interna superiore” a quella che si lasciava dietro nei musei. Mentre era ricoverato, Bohlmann collaborò sempre con tutte le terapie, si dedicò alla pittura e comprò migliaia di semi di alberi, che poi consegnava a suo fratello per farli piantare. Voleva essere ricordato, dichiarò, anche per aver lasciato al mondo qualcosa di bello, non solo per averlo distrutto.

Dimesso nel 2005, Bohlmann fu seguito domiciliarmente per consentirgli di reinserirsi, per quanto possibile nella società e non commise più alcun reato. Morì nel 2009, all’età di 72 anni.

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