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Unconventional Berlin Diary: Görlitzer Bahnhof e la mia testa piena di veleno

Sono stata in un rock club vicino a Görlitzer Bahnhof, a sentire una band austriaca. Ragazzi simpatici, atmosfera rilassata, una birra di troppo e un misto di sugna deep-fried ingurgitata solo perché costava appena due euro in più delle patatine fritte che avevo già ordinato. La calda onda di una bel combo basso-batteria, un momento Berlin graffiti nei bagni, il viscido senso di colpa per aver ingurgitato schifezze e la lente a contatto destra che decide sempre per prima di cominciare a darmi fastidio, indurendosi come una scheggia nella mia povera cornea ipersensibile.

Fin qui, tutto bene. Come diceva Hubert ne “L’odio” di Kassovitz “il problema non è la caduta, ma l’atterraggio” e l’atterraggio ha avuto luogo poco dopo che avevo lasciato il locale. Camminavo spedita e vagamente sovrappensiero, ma non tanto da non notare due uomini che mi venivano incontro affiancati, uguali agli spacciatori in cui ho avuto modo di imbattermi mille volte, per la stessa strada. La zona non era deserta, ma neanche affollata, in quel preciso momento eravamo soli. A un tratto uno dei due ha fatto un cenno all’altro e poi ha modificato la traiettoria per venire verso di me. In qualche modo me lo aspettavo. Istinto animale, probabilmente. Arrivati alla mia altezza mi hanno “chiusa” da entrambi i lati, bloccandomi il passaggio del tutto gratuitamente. Non è piacevole quando sei da sola. Ho ringhiato un insulto, non avrei dovuto farlo, sono stata un’idiota, con le persone sbagliate si può finire veramente male. Loro hanno “solo” riso, un tipo di risata tonda, solida, la risata di chi ha appena visto una cosa molto buffa ed è stata esattamente quella risata a mandarmi il cervello in tilt. In quel momento ho avuto l’esatta percezione di quanto poco contassi, come essere umano, nel piano di realtà in cui queste persone si muovono. Mi hanno lasciata andare e io ho continuato a camminare, furiosa.

Ho ripensato a qualche giorno prima e all’ubriaco che mi aveva seguito e chiamato con insistenza, solo perché lo avevo guardato per caso e per un secondo mentre usciva da un imbiss. Ho ripensato a quando avevo diciassette anni e un balordo aveva cercato di trascinarmi con sé, afferrandomi per un braccio, mentre tornavo da scuola. Ho ripensato ad alcuni studenti di giurisprudenza, a Roma, che si appostavano fuori dai bagni delle ragazze e giudicavano ogni studentessa che usciva sollevando dei fogli su cui avevano scritto dei voti. Non ne faccio una questione femminista. Ho conosciuto maschi umiliati nello stesso modo. Dico solo che subire anche solo una minima costrizione fisica da parte di due sconosciuti convinti che fosse tutto lecito, quella notte mi ha aperto nella testa un rubinetto di acido muriatico.

Per questo l’anarchia è un’utopia, perché senza regole e avendone modo io reagirei a una molestia o a una violenza con la stessa moderazione di Caterina de’ Medici. Quella della notte di san Bartolomeo. Al netto della fede cattolica.
Anche il quartiere in cui vivo, a Friedrichshain, è stato dichiarato pericoloso. Per fortuna non ho ancora mai avuto problemi e credo che in nessun caso la mia vita cambierà molto.
Niente davvero cambia. Al massimo si sedimenta, come nella genesi del petrolio.

♠”Prayer to God”–Shellac♠

Machete

Machete vive a Berlino dal 2013.

Ama anche la musica, il cinema, la letteratura e la serotonina.

A otto anni sperava che prima o poi qualcuno avrebbe inventato una pillola contro la morte. Un po’ lo spera ancora.

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