Potrebbe piovere: il loop infinito della quarantena
Potrebbe piovere: la Quarantena e il suo loop infinito
di Riccardo Coradeschi
Da più di un mese ormai sono confinato in casa. Mia moglie, tornata dall’Italia poco prima del lockdown totale, è stata ritenuta abbastanza sospetta da spingere il mio ufficio a concedermi due settimane di telelavoro senza alcun problema. A partire dalla settimana successiva, tutta la compagnia ha deciso di lavorare in remoto per qualche giorno.
Ora non sappiamo quando ritorneremo in ufficio, ed ogni mattina, in video chat con i colleghi, vedo gli inequivocabili segni della quarantena diventare più marcati, giorno dopo giorno. Le regole sono semplici: niente commenti sui capelli, ignorare qualsiasi cosa succeda sulla sfondo (che siano gatti, partner o figli) e soprattutto mai, mai alzarsi in piedi e rivelare gli orrendi pantaloni del pigiama sotto la tenuta semi-decente da presentare alla webcam. Vorrei poter dire che è una regola generale e che non l’ho imparata a mie spese.
Da allora sono uscito tre volte, sul triangolo medico-farmacia-supermercato. Ora è più di una settimana che non mi spingo oltre il cortile interno del palazzo. In effetti ho iniziato a temere le uscite, e sono solo per la pandemia: ho la netta sensazione che la mia già scarsa massa muscolare si stia definitivamente trasformando. In cosa, ancora non lo so, ma ieri ho osato scendere baldanzosamente per buttare la carta, e la risalita dei tre piani di scale ha provocato visioni di sherpa e yak.
Almeno credo che fosse ieri. L’isolamento ha un effetto osmosi sul tempo. Dal mio divano fatico a distinguere l’oggi dalla giornata di ieri, e la settimana presente dalla scorsa, mentre ripeto il ciclo cibo-lavoro-film-lavoro-gioco-cibo-film-libro-letto in un loop infinito, che al contrario di quanto si pensi non fa diventare tutta la settimana un weekend, quanto piuttosto tutto il weekend una settimana.
Perché se hai lavoro arretrato tanto vale, ti prenderai quelle ore in più in un altro momento, quando ci sarà meno carico e più tempo libero e si potrà uscire fuori senza maschera e guanti, ma con un senso più preciso del tempo che ci dia un confine netto tra un’ora e l’altra, tra giorno e giorno, quando la vita non sarà più un unico piano sequenza senza tagli ma di nuovo un’opera a puntate, un feuilleton berlinese fatto di U-Bahn, passeggiate, una spesa senza doversi barcamenare con i pochi rimasugli sullo scaffale (che come feuilleton sarebbe tremendo ma come vita mi piace) per risentirsi finalmente in un tempo limitato, scandito, spezzato e non più “fuor di sesto”.
Rimpiango di non aver mai letto “Oblomov” (come per Proust e “Infinite Jest” mi limito a millantarne una conoscenza approfondita, senza mai spingermi all’aperta menzogna) perché in questo momento so cosa significa vivere su un divano.
Questo restringimento del mio spazio, però, non ha su di me l’effetto della siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Non mi lancio in voli di immaginazione, non riscopro dimensioni interiori profonde. Nonostante questa pandemia mi abbia colto in un momento di grande dubbio esistenziale, di indecisione tra due mondi e due carriere, mi ritrovo completamente incapace di autoanalisi.
I miei processi mentali, quando non parlo e non lavoro, si stanno limitando a canticchiare “Adios Hermanos” di Paul Simon. Se aggiungiamo a questo le schitarrate incessanti dei vicini di casa, impegnati a imparare “Wonderwall” e “Hotel California” da circa un mese, i momenti di veglia assumono una consistenza vischiosa. Ogni momento di quarantena è uguale a ogni altro momento di quarantena.
Sono stato fortunato, e finora nessuno dei miei cari è stato toccato da questa situazione. In compenso mi riscopro più vacuo di quanto mi aspettassi, inabile alla riflessione. La mia profonda passione per la storia mi ha sempre fatto pensare che si potesse mettere ordine negli eventi mondiali, e che in ogni accadimento storico esistesse una linearità, una prospettiva della longue durée.
Mentre la Storia mi aggira, mi accorgo di non avere una vera e propria lettura di questo evento. Vivo questo momento come qualcosa che “succede”, e mi trovo in difficoltà quando cerco di rifletterci in termini diversi da questi. Vedo le reazioni della gente, dalle più sorprendenti alle più ordinarie, e invece di una direzione, di causa ed effetto, vedo il caos delle piccole cose, lo spettro del quotidiano e dell’ordinario.
La cosa più sorprendente è che non mi dispiace affatto. Mi godo la nuova, semplice routine della vita in casa sempre in due, fatta di gesti minimi ma rassicuranti, come preparare il tè per mia moglie nel pomeriggio, o cercare una puntata di qualche tremendo quiz Rai ripescato da internet, per rendere l’anormalità più vicina alla normalità di un tempo, prima del trasferimento in Germania.
Steven Spielberg ha dichiarato di aver girato “Schindler’s List” in bianco e nero perché per lui, da bambino, era il colore con cui veniva trasmessa la realtà, mentre il Technicolor era relegato ai grandi spettacoli hollywoodiani. Ora scopro che per me il colore della realtà è la luce smarmellata degli studi Rai.
Con tutte le mie pretese da intellettuale, la quarantena mi rivela come irrimediabilmente ordinario, nazional-popolare. Non ho un balcone da cui affacciarmi a cantare o gridare incoraggiamenti, e a questo punto, se anche lo avessi, credo che lo farei saltare per togliere ogni tentazione, ma tra le crepe dell’isolamento si intravedono la tranquillità e la soddisfazione di una vita borghese e, forse, perfino adulta.
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