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Berlino città aperta? Ecco come vivono i rifugiati che approdano nella capitale tedesca

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Photo by Libertinus

di Lorenzo Romagna Manoja

Sono le 18.00 e non c’è ancora nessuno. Qualche minuto più tardi iniziano ad arrivare i primi rifugiati del centro di accoglienza di Charlottenburg, un tempo un ostello della gioventù. Sono qui per le lezioni di inglese e tedesco organizzate da gruppi di volontari, di cui faccio parte anche io. Le lezioni si svolgono nel rumoroso stanzone che funge da sala comune. La TV è accesa e sintonizzata su Al-Jazeera. Mentre prendiamo posto al lungo tavolo, dei bambini giocano fra le sedie aspettando che i loro genitori o parenti nella sala accanto sparecchino la tavola della cena. Gli “studenti” vengono dai paesi più disparati: dal Ciad, dal Pakistan, dalla Siria, dall’Armenia. La maggior parte dei presenti però viene dal continente africano. La differenza di età tra i partecipanti, alcuni adulti, altri poco più che bambini, spaventerebbe anche un professionista. Alcuni, soprattutto gli adolescenti, sono molto desiderosi di imparare. Tra i partecipanti ci sono anche dei rifugiati che hanno già lasciato il centro di accoglienza e tornano appositamente per l’occasione. Una parte del gruppo si limita a guardare con curiosità lo svolgimento della lezione senza lanciarsi troppo. Altri ancora passano a vedere che succede, a volte si fermano qualche istante, per poi tornare a fare altro.

Ognuno dei volontari decide a sua discrezione fino a che punto tenterà di coinvolgere i meno interessati. Spesso è difficile affrontare temi personali, soprattutto gli adulti si mostrano poco intenzionati a rivelare molto di sé oltre alla provenienza e alla lingua. Un uomo del Ciad, la cui età sembra aggirarsi intorno ai 40 anni, racconta che nel suo paese aveva lavorato come traduttore. L’inglese però non sembra essere la sua lingua preferita, infatti poco dopo inizia ad ascoltare la musica dai suoi auricolari senza proferire più nemmeno una parola. Un suo connazionale più giovane, seduto di fronte, sembra più interessato a partecipare e disposto a raccontare di sè, della vita di chi vorrebbe lavorare legalmente ma non può.

Che la situazione anche in Germania non sia delle migliori lo suggerisce già il fatto che solo a Berlino dal 2012 a oggi il numero di persone che, non vedendosi riconosciuto l’asilo politico, sono state espulse, è passato da circa 360 all’anno a più di 600. Nel 2014, in tutta la Germania, quasi 11 mila persone hanno subito lo stesso destino, un incremento sostanziale rispetto ai circa 7600 rifugiati espulsi nel 2012. Molti altri in cerca di asilo non riescono nemmeno a varcare i confini del paese. Ciononostante aumenta ogni anno il numero di coloro che riescono a entrare: solo a Berlino sono previsti per quest’anno intorno ai 20 mila nuovi arrivi. Nei primi due mesi del 2015 la capitale tedesca ha accolto ben 3500 persone.

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L’amministrazione regionale di Berlino (che oltre ad essere la capitale è anche una regione a sé stante) per il momento ha messo a disposizione dei nuovi arrivati solo 5 mila posti letto. Il ministero  della salute e delle politiche sociali della regione (Landesamt für Gesundheit und Soziales), che già dal 2012 combatte con la mancanza di alloggi e di personale qualificato, deve fare sempre più affidamento su imprese private che però non è in grado di controllare adeguatamente. Inoltre il lavoro in quasi tutti i centri di accoglienza è perlopiù svolto da volontari, i quali, a volte, hanno lamentato la scarsa cooperazione delle imprese incaricate dal comune e dalla regione.

Il consigliere comunale per le politiche sociali di Berlino Mario Czaja (CDU) tuttavia si mostra fiducioso: anche se la Germania quest’anno dovrà vedersela con il più massiccio afflusso di rifugiati mai registrato, questo non presenterà un problema sostanziale per il paese, quantomeno per Berlino. Czaja sostiene che la città saprà far fronte al bisogno di accogliere i 20 mila nuovi rifugiati in cerca di asilo politico grazie al supporto del settore privato nonché delle associazioni umanitarie. A quanto pare non sarebbe nemmeno necessario mettere a disposizione 20 mila nuovi posti letto, poiché ogni giorno si liberano i posti dei rifugiati che lasciano i centri di accoglienza.

Ma anche se così fosse, cosa succede ai rifugiati che se ne vanno, considerando che il permesso di lavoro dipende dal riconoscimento dell’asilo politico e che chi non lo riceve potrebbe dover aspettare fino a quindici mesi in assenza di un titolo di studio riconosciuto? Nell’attesa, i rifugiati non hanno accesso nemmeno ai corsi di tedesco sovvenzionati e tantomeno al regolare sussidio di disoccupazione. In questi casi, chi vuole imparare la lingua deve affidarsi alle lezioni organizzate dai volontari e chi vuole sfuggire alla disoccupazione, almeno per qualche ora alla settimana, è costretto a sperare che rimangano posti di lavoro una volta soddisfatta la richiesta dei cittadini EU e dei rifugiati in regola, oppure a lavorare in nero.

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La legge che regola il trattamento dei rifugiati in attesa di un nulla osta è stata modificata di recente in seguito alle critiche mosse dalla corte costituzionale tedesca già nel 2012 e alle numerose proteste condotte dai rifugiati stessi. Mentre la garanzia di cure mediche continua a essere riservata ai casi acuti, vanno sottolineati il maggior impegno da parte dei comuni e delle regioni a garantire alloggi a tutti i rifugiati, pur con i problemi che questo presenta; l’aumento rispetto al 2012 dei sussidi concessi a ogni persona in attesa di essere messa in regola da 225 a 352 € mensili oltre alla copertura dei costi di affitto e riscaldamento una volta lasciato il centro di accoglienza; infine l’eliminazione dopo tre mesi dall’arrivo in Germania dell’obbligo di rimanere nel comune di residenza.

Per quanto questo possa non sembrare poco rispetto alla situazione di un rifugiato in Italia, c’è da chiedersi che tipo di vita condurrà una persona in attesa di poter accedere a un lavoro legale, a una formazione professionale e ai corsi sovvenzionati di tedesco. Inoltre, il fatto che molte di queste persone non hanno potuto frequentare le scuole nel proprio paese dovrebbe far riflettere sulla necessità di ampliare l’offerta formativa.

Non è affatto chiaro se Berlino e la Germania siano pronti ad accogliere ancora più rifugiati. Le associazioni di volontari non possono affrontare questa sfida da sole e sul settore privato non si può fare affidamento ciecamente. La necessità di offrire già nei primi mesi di residenza maggiori possibilità lavorative e formative anche ai rifugiati in attesa di nulla osta che non possono presentare un titolo di studio sembra essere il punto più saliente.

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