“Il Trasformatore del Caos”: intervista a Fausto Cubello, artista italiano a Berlino
Fausto Cubello è un artista italiano residente a Berlino, il cui lavoro esplora la fragilità e la complessità dell’esperienza umana. Al centro della sua ricerca ci sono le “Ombre Atomiche”, figure frammentate e solitarie che evocano catastrofi storiche, memorie collettive e la tensione tra isolamento e ricerca dell’identità.
Con tecniche pittoriche antiche come velature ed encausto, Cubello trasforma il caos interiore in un ordine poetico, opponendosi alla riproducibilità digitale e all’omologazione stilistica, e cercando di restituire all’opera d’arte la sua aura irripetibile. Laureato in Pittura all’Accademia di Frosinone e diplomato all’Accademia di Brera, ha partecipato a numerose mostre collettive e concorsi, e condivide la sua pratica anche attraverso il canale YouTube “Corso di Pittura Pigmento”. Lo abbiamo intervistato per voi.
Nella tua produzione artistica è centrale il concetto di “Ombre Atomiche”, resti di un’umanità frammentata dalle continue esplosioni della storia. Ce lo spieghi meglio?
Devo dire che l’idea delle “Ombre Atomiche” è nata con me. Non è una scelta che ho fatto a tavolino, è la conseguenza diretta del mio stesso vissuto. Sono venuto al mondo soffrendo a causa di una emiparesi, e questo mi ha costretto, fin da bambino, a interrogarmi sulla mia personale frammentazione e sulla condizione umana. La mia arte è nata come risposta a questa anomalia.
Le mie figure, in questo senso, non sono un’osservazione esterna, ma un reperto monumentale della mia esperienza. Le vedo come un punto di fusione tra due tipi di catastrofe: la rovina monumentale di Pompei, che ti mostra il disastro etico, e la catastrofe invisibile e silente di Chernobyl si fondono con l’invisibilità moderna intesa come la natura umana denaturata. La loro disanatomia e solitudine sono la prova pittorica della stanchezza interiore che ho provato crescendo in un ambiente che percepiva la diversità come un’anomalia.
In fondo, dipingo queste figure per fissare la fragilità dell’umano nella materia più solida, cercando di trasformare il mio trauma e il rumore della storia in un silenzio monumentale.

Definisci il tuo lavoro come l’atto di un demiurgo contemporaneo che “ristabilisce un ordine nel caos”. Che aspetto ha il tuo caos e come lo trasformi sulla tela?
Beh, la definizione di “demiurgo” è ambiziosa, ma è un concetto che trova le sue radici nella mia visione cosmica: io sento che il mio compito etico è proprio quello di creare mondi di significato partendo dalla disgregazione. Tuttavia, se dovessi definirmi in modo più onesto, mi sento come il Trasformatore del Caos. Non sono un semplice costruttore, ma il trasformatore che rivendica l’atto creativo come un imperativo di irreversibilità.
La mia pittura è un atto di resistenza in un mondo veloce, perché se anche copro un errore, non posso annullare il tempo speso e lo strato di materia che ha consumato. Il non poter annullare l’esistenza dell’errore è ciò che infonde un valore etico e un rischio esistenziale nel processo. Io proteggo il sacrificio temporale dell’autenticità.
Il caos che mi spinge a lavorare non è un’idea, ma la tensione originaria che ha dominato la mia infanzia. Sono cresciuto stretto nella tensione tra due mondi opposti: l’universo di mio nonno, fatto di magia e sperimentazione che mi ha aperto all’inconscio, e l’ambiente di mia nonna, fatto di devota religione e di un ingombrante giudizio silenzioso che sentivi negli occhi delle statue. Questa dicotomia tra il sacro e l’occulto è la mia costante inquietudine.
Per rielaborare questa tensione, io mi metto a disposizione del processo, trasformando il mio essere in un Laboratorio della Pittura. La disciplina morale che mi è stata impartita è la struttura metodica che mi permette di imporre un ordine a quel conflitto. Il risultato non è un quadro, ma la metabolizzazione stessa in azione: è il silenzio ordinato che fisso nella materia per dare longevità al rumore della mia storia.

Padroneggi con grande abilità diversi stili. Come definiresti il tuo?
Devo precisare che l’arte non è una questione di padronanza di stili, come se si trattasse di trucchi da sfoggiare: per me, è una questione di coerenza della visione. Però, se devo dare un nome al mio linguaggio, parlerei di Espressionismo Archeologico. Ed è la conseguenza diretta della mia storia.
L’Espressionismo nasce dalla necessità di esprimere ciò che sento in modo viscerale. Come ho detto, il mio cervello ha sopperito ai danni neurologici del trauma perinatale potenziando l’emisfero destro. La deformazione anatomica che si vede nelle mie figure non è un vezzo stilistico, ma la conseguenza neurologica e intima di questo percorso: è l’unica via onesta per elaborare la disunione profonda che sento.
L’Archeologia, per me, non è solo l’uso di effetti materici consunti o la citazione di rovine. È un termine che definisce il mio scavo proiettivo etico: io non cerco di imitare il tempo, ma di fissare la verità del mio conflitto interiore nella materia più solida, strato dopo strato, per garantirne la massima longevità. Uso velature che nascondono e rivelano, proprio come si fa in uno scavo che riporta alla luce non gli strati di terra, ma gli strati di storia, alchimia e psiche. Il mio stile, in sintesi, è la struttura emotiva e metodica che ho dovuto imporre al mio caos interiore per rendere visibile l’invisibile e renderlo irreversibile.

Facci vivere con te il momento in cui crei. Come nasce una tua opera?
L’opera non nasce da un’idea strutturata a tavolino, ma è un atto di scoperta e di abbandono al mistero. L’input più prezioso è l’immagine che salta alla mente, alkahest, la quintessenza del mio essere più intimo. Sono visioni nate dal nulla che mi portano a studiare la loro simbologia nascosta e a confrontarla con le mie sensazioni dirette. Rifiuto il concettualizzare a priori, perché perderei quel senso del magico che mi spinge a scoprire.
Per me, creare è un rituale. È il momento in cui io mi metto a disposizione del processo per rielaborare l’inquietudine. Per questo, tutto parte dalla cura maniacale per la longevità: preparo le mie imprimiture con metodi classici o con quello che definisco le mie miscele antinichiliste, perché la materia deve rispondere con tenacia allo scorrere del tempo. Scelgo i miei colori o li creo da scarti per infondere la mia intenzione e il mio sacrificio nella sostanza stessa.
La pittura vera e propria è un protocollo metodico di resistenza. L’opera è un continuo seppellire e scavare: le velature si fondono o si sovrappongono in un atto di irreversibilità. E sapere quando un’opera è finita è il momento più insondabile del processo, perché si parla di confine, e i confini sono punti delicati dove convivono due realtà, due stati.

Vivi a Berlino da qualche tempo. Cosa ne pensi della città e come valuti la tua esperienza in generale e sul piano artistico?
Sono qui da circa un anno e mezzo e devo dire che la mia percezione della città non è ancora legata al mainstream. La mia esperienza è, per ora, puramente esistenziale. Spesso mi sento come il protagonista di Novecento di Baricco, definirei Berlino come una “nave troppo grande per me”.
Questa sensazione di vastità e di essere in un contesto immenso e incomprensibile amplifica il mio tema della frammentazione e della solitudine dell’uomo contemporaneo.
Sul piano artistico, per quel poco che ho visto, Berlino mi sembra un mondo diverso. Venendo da una realtà dove il lavoro e l’arte sono spesso legati a conoscenze, qui noto una maggiore considerazione per la figura dell’artista. Questa città mi dà l’impressione che la realizzazione sia possibile. Questo è fondamentale, perché il mio lavoro richiede un’enorme disciplina morale e un sacrificio temporale. A Berlino sento di poter avere lo spazio etico per continuare il mio scavo proiettivo e dare longevità alla mia visione.

Che rapporto hai con l’Intelligenza Artificiale, sempre più presente in ogni settore produttivo? E in che modo vivi questa ennesima trasformazione dell’universo in cui gli artisti creano?
Il mio rapporto con l’Intelligenza Artificiale è una questione profondamente etica e di valore, non di tecnologia. Riconosco che l’IA è uno strumento straordinario.
Tuttavia, per me, l’IA è l’antitesi di tutto ciò che io cerco di proteggere con la mia pittura. L’IA opera sulla base della probabilità e della serialità, annullando qualsiasi rischio. La mia arte, come ho detto, è un atto di resistenza metodica che rivendica l’irreversibilità. Quando lavoro, non posso annullare l’errore con un click, quell’errore esiste nello strato di materia, consuma il mio tempo e lascia una traccia. Per me, non poter annullare l’esistenza di quell’errore è ciò che infonde il valore etico e il rischio esistenziale nel processo.
Io vedo la creazione assistita dall’IA come una minaccia non all’abilità, ma all’autenticità. Il mio compito, come Trasformatore del Caos, è trasformare la lotta esistenziale solo attraverso l’impegno prolungato nella materia e il Laboratorio della Sostanza. L’IA salta questa fase di metabolizzazione profonda, e di conseguenza produce solo un’immagine che manca del peso del vissuto.
In questo universo che corre sempre più veloce, la mia scelta di lentezza e materia è un atto politico e morale. Continuo a lavorare in modo irreversibile, perché solo così posso produrre un risultato improbabile, qualcosa che la statistica non può prevedere, e che, per la sua longevità, conserverà sempre l’aura della mia fatica.

Tu hai un canale YouTube, che invito tutti a visitare, in cui dai indicazioni su come dipingere e consigli su varie tecniche. Quali artisti ti colpiscono o emozionano di più e c’è qualche fermento del panorama contemporaneo che, secondo te, si sta muovendo in direzioni interessanti?
Il canale YouTube (Corso di Pittura Pigmento) è stata un’esperienza fondamentale, anche se non pubblico nuovi video da anni. L’ho creato come un atto di resistenza alla superficialità, perché la memoria del “come si fa” non si perda e si protegga la longevità della materia.
Quello che mi emoziona di più sono le suggestioni romantiche: artisti che riescono a cogliere i moti dell’anima di fronte all’Assoluto… in questo senso, trovo fondamentale la figura di Odd Nerdrum, che rivendica la tecnica classica ma crea figure in un deserto esistenziale, rifiutando il consenso del mercato.
Nel contemporaneo, cerco lo stesso peso emotivo. In Italia, sono profondamente toccato dalla ricerca di Agostino Arrivabene per la sua alchimia e da Nicola Samorì per la violenza etica sulla tela. All’estero, figure come Marlene Dumas, per la sua onestà nel trattare la fragilità della figura umana, e Adrian Ghenie, che lavora sulla stratificazione e la distruzione per rivelare la verità.
Proprio in questa direzione vedo il fermento più interessante: un forte ritorno alla pittura figurativa materica. Non parlo di un ritorno passatista, ma di una resistenza concettuale al digitale. Questo movimento che insiste sul sacrificio temporale della sostanza è l’unica direzione che trovo eticamente valida. È l’azione del mio Trasformatore del Caos in campo aperto.
C’è qualcosa che non ti ho chiesto o una riflessione a cui ti piacerebbe dare voce?
Credo che tu mi abbia posto domande molto profonde, toccando punti cruciali come la frammentazione, la disciplina e la solitudine. Ma se c’è una cosa che vorrei fosse chiara in chiusura, è che l’arte per me non è mai stata una scelta, ma una necessità etica e fisica.
La vera riflessione che mi preme è questa: l’inquietudine che si percepisce nelle mie opere non è un errore, ma la prova che il lavoro sta raggiungendo l’obiettivo. So che alcuni potrebbero dire: “Ma io non voglio vedere queste cose, le vedo già tanto sui giornali”. Ma il bombardamento dei mass media è fatto di notizie veloci e reversibili che spingono all’oblio. La mia arte fa l’esatto opposto: costringe l’osservatore a mettersi davanti allo specchio e a riconoscere, nel peso e nell’irreversibilità della materia, la sua stessa umanità e il suo rischio esistenziale.
In un mondo che ci offre l’illusione di poter annullare qualsiasi cosa con un click, la mia pittura è la mia testimonianza che il sacrificio temporale è l’unica moneta che può infondere autenticità in un’epoca di serialità. È l’unica via per un silenzio ordinato e duraturo.




