Il crimine organizzato ha paura delle parole. Intervista a Floriana Bulfon

Foto: Agr Maurizio Riccardi

Dal 24 al 26 novembre, a Berlino, si terrà la trentunesima conferenza del Disruption Network Lab, dal titolo “Organised Crime – A Global Business“. Questo evento, che chiude un altro anno di approfondimenti e attività intense da parte del DNL, vedrà la partecipazione di numerosi giornalisti d’inchiesta, criminologi, whistleblower e altri esperti che, a vario titolo, si sono occupati di mafia e crimine organizzato in tutte le sue forme, a livello nazionale e internazionale.

Fra questi ci sarà Floriana Bulfon, una giornalista italiana che si è distinta nell’analisi dei fenomeni del crimine organizzato, in particolare con le sue inchieste sulla famiglia Casamonica a Roma, ma anche per i suoi approfondimenti sul narcotraffico e sulla sua funzione nel contesto del crimine organizzato transnazionale, che lega la mafia e le altre organizzazioni italiane ai grandi cartelli internazionali. Bulfon, che parteciperà al panel del 24 novembre dal titolo “Narconomics: Transnational Drug Trafficking & Corruption” ha accettato di parlare con noi non solo di narcotraffico, ma anche del fenomeno mafioso in generale e del perché le parole possano fare ancora così tanta paura a chi adopera disinvoltamente le armi, il denaro e il potere.

I biglietti per partecipare alla conferenza possono essere acquistati qui.

mafia - organised crime DNL crimine organizzato

Giovanni Falcone diceva che “la mafia è un fenomeno umano e, come tutti i fenomeni umani, avrà un inizio e una fine”. Che idea te ne sei fatta, dopo aver approfondito i fenomeni del crimine organizzato in tanti ambiti differenti?

Sono convinta che Falcone avesse ragione. Ma lui stesso ci ha insegnato che per arrivare a vedere la fine delle mafie è necessario portare avanti con costanza tre cose. Anzitutto bisogna aggiornare gli strumenti di contrasto, le leggi e i mezzi investigativi, all’evoluzione dei clan: se oggi, ad esempio, i registi del mercato della cocaina usano solo comunicazioni criptate, servono apparati hi-tech per intercettarle e riforme del codice penale per rendere valide queste intercettazioni nei processi. C’è poi l’elemento a cui Falcone ha dedicato l’ultima parte della sua carriera: la collaborazione internazionale tra magistrati e polizie.

Continua a essere troppo lenta, persino all’interno della Ue, ed è resa debole dalle differenze nel codice penale, che permette ad una cosca di non venire perseguita in un determinato Paese per comportamenti che in un altro sono considerati criminali: penso soprattutto ai cosiddetti reati associativi. Infine, la questione più importante: la costruzione di una coscienza civile che faccia della lotta alla mafia un imperativo morale.

In Italia proprio dopo l’uccisione di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino c’è stata una mobilitazione delle persone e delle istituzioni che ha permesso di infliggere colpi enormi a Cosa Nostra. I boss l’hanno capito e adesso tengono un profilo basso, preferendo usare la corruzione piuttosto che la violenza. La criminalità organizzata in Italia sta diventando invisibile e questo riduce l’attenzione dell’opinione pubblica e dei partiti politici, quindi di conseguenza dello Stato.


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Ti sei occupata di crimine organizzato transnazionale e, alla conferenza “Organised Crime”, parlerai in particolare di come le mafie organizzino il network logistico legato al traffico di droga. Bastano pochi gradi di separazione per arrivare da queste attività fino al consumo nella società “civile”, a Roma come a Berlino. Trovi che manchi qualcosa nel dibattito sulla droga e sulla riduzione del danno? Perché, secondo te, si parla così poco del collegamento che c’è fra il consumatore da salotto o da discoteca e la scia di violenza e corruzione che serve a recapitargli la sostanza che desidera?

È il grande buco nero nelle politiche di prevenzione. Nessuno si occupa dei consumatori. La droga è nella società, ma non è un tema della società, la sua presenza è occultata, rimossa. Soprattutto in Italia, non ci sono campagne di sensibilizzazione, non ci sono indagini sociali. Sappiamo che l’uso di cocaina dilaga, sappiamo che nuove droghe micidiali vengono diffuse ma si fa pochissimo per conoscere e contrastare il fenomeno.

Come molti in Italia, inclusi prestigiosi magistrati antimafia, io credo che la liberalizzazione delle droghe leggere contribuirebbe a incidere sul business criminale e frenerebbe la spinta verso le droghe pesanti. Ma senza interventi per limitare il consumo, è illusorio pensare di sconfiggere il narcotraffico.

Che peso ha il narcotraffico nel quadro di una criminalità organizzata che si dedica sempre più spesso ai rapporti con la politica, con le istituzioni, alla corruzione e agli investimenti di stampo “imprenditoriale”?

Il narcotraffico è il petrolio dell’economia mafiosa, muove qualsiasi attività illecita. Il boom delle importazioni di cocaina, passate da quintali a tonnellate, moltiplica i profitti di tutta la filiera criminale: dai broker che gestiscono le spedizioni attraverso l’oceano, alle famiglie che smistano i carichi fino ai padroni delle piazze di spaccio. Oggi i boss usano questi soldi per colonizzare il tessuto imprenditoriale: l’infinita disponibilità di cash gli permette di battere la concorrenza delle imprese oneste.

Il denaro contante gli consente di assoldare professionisti per rendere pulito il volto delle loro società, oltre a corrompere politici e funzionari per ottenere autorizzazioni e appalti pubblici. La dimensione economica dei clan è cresciuta in maniera abnorme, fino a generare queste nuove figure che ho descritto in Macro Mafia. (Rizzoli, 2023 ndr). Sono i pionieri di una criminalità veramente globale perché i guadagni permessi dal traffico di droga non hanno precedenti nella storia.

Questa attività richiede una piena globalizzazione dei circuiti criminali: produttori sudamericani, rete logistica dei broker, distributori all’ingrosso delle nostre mafie, gruppi cinesi per i pagamenti, e poi ad esempio banche emiratine per il riciclaggio. Siamo di fronte ad un’evoluzione del modello mafioso, in cui il controllo del territorio e la forza dell’intimidazione rimangono ma passano in secondo piano rispetto alla creazione di una rete logistico-finanziaria in apparenza pulita che permette di spostare merci proibite e denaro non tracciabile in tutto il mondo.

In diverse interviste hai dichiarato che “le mafie non vogliono che si parli”. Che opinione hai dei numerosissimi prodotti culturali che da un lato raccontano le attività della malavita, ma dall’altro, secondo alcuni, la “umanizzano” e la glorificano?

I personaggi di questi prodotti editoriali possono influenzare gli spettatori soprattutto giovani, che ne traggono modelli e passioni, ma molto dipende dal contesto che svolge un ruolo centrale sulla percezione del messaggio. Gli effetti non possono prescindere dal come è stato cresciuto ed educato chi sta guardando o leggendo.
Il punto non è censurare le serie e i film, anche perché spesso la realtà li supera, ma lavorare affinché chi vive in condizioni di degrado e pensa che l’unica strada per avere successo e soldi nella vita sia delinquere non trovi normale picchiare, uccidere e sognare di diventare un boss.

Le tue inchieste nell’ambito del crimine transnazionale ti hanno portato a farti un’idea delle differenze nel rapporto dei singoli Paesi con le mafie? Trovi che ci siano differenze nel modo in cui le organizzazioni criminali si innestano nel tessuto sociale in Italia, rispetto ad altri Paesi europei?

L’Italia è divisa in due. A Sud le mafie esistono da almeno 150 anni e questo rende la loro presenza nella società più difficile da affrontare. Nel Centro e nel Nord invece il loro inserimento è più recente: è cominciato con la migrazione dal Sud negli anni ‘70 e si è irrobustito grazie agli investimenti economici. Non a caso si assiste nell’ultimo decennio alla nascita di strutture di ‘ndrangheta in Lombardia, in Emilia e persino nella stessa città di Roma.

Credo che queste ultime dinamiche siano simili a quello che sta avvenendo in Olanda, Belgio, Francia, Germania con la nascita di vere organizzazioni mafiose all’interno delle comunità d’origine: una fase iniziale molto violenta, poi nell’arco di una generazione l’assestamento degli equilibri e la spinta verso l’investimento dei profitti originati dalla droga nelle attività economiche.

Perché il giornalismo fa ancora paura alle mafie? E quali sono i mezzi che le organizzazioni criminali utilizzano per scoraggiare e ostacolare il lavoro dei giornalisti d’inchiesta?

Un potere invisibile ha bisogno di restare nell’ombra, soprattutto nel momento in cui cresce innestandosi nell’economia legale. I padrini temono le inchieste, perché mobilitano l’opinione pubblica e determinano la reazione delle istituzioni. Quando poi si infiltrano nell’imprenditoria, il danno reputazione di un articolo può bloccare i loro piani: mafiosi e corrotti ci vorrebbero in silenzio per continuare a costruire il loro potere.

Ci sono le minacce fisiche, le aggressioni che ti costringono a dover vivere sotto la protezione dello Stato per fare il tuo lavoro. E poi in Italia ci sono le querele temerarie: denunce e azioni legali, avviate pur sapendo di avere torto, con il solo scopo di intimidire il giornalista attraverso la richiesta di risarcimenti milionari. Queste cause restano aperte spesso per decenni – il sistema giudiziario è lentissimo – come una spada di Damocle che può alimentare l’autocensura soprattutto per chi è freelance e precario e non ha alcuna tutela legale e finanziaria. Immaginate cosa significa per il collaboratore di un piccolo giornale o sito convivere per anni con il rischio di dovere pagare milioni di danni a un boss…

Ma devo sottolineare che in Italia la protezione fisica delle forze dell’ordine ai cronisti minacciati è frequente e attenta. Un tema da considerare anche altrove, se pensiamo all’ Olanda, ad esempio, dove un celebre giornalista, Peter R. De Vries, è stato ucciso dai killer all’uscita del principale canale tv di Amsterdam.
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