Sono andata a vedere Black Panther senza sapere nulla di supereroi

black panther movie poster

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di Angela Fiore

Ultimamente scelgo i film da vedere in base alle critiche. Ovvio – direte – e invece non è come pensate. Non vado a vedere i film che hanno buone recensioni: vado a vedere i film che non sono piaciuti alle persone che mi sono antipatiche. Se un sito o un commentatore che normalmente esprime posizioni che io trovo esecrabili ha odiato un certo film, io lo vado a vedere per principio, di qualsiasi film si tratti. Applico la stessa filosofia a tutti i prodotti culturali: ho acquistato l’intera saga del fumetto “Quando c’era LVI” solo perché Casapound ha aggredito gli editori al Romics di qualche hanno fa. Potete quindi immaginare cosa mi abbia spinta ad andare a vedere Black Panther. Nello specifico, alcuni commentatori online avevano lamentato il fatto di essersi sentiti “esclusi in quanto bianchi” dalla rappresentazione e avevano obiettato che “un film su un supereroe specificamente bianco, magari scandinavo, chiamato White Panther, sarebbe stato definito razzista”. Capite da voi che l’idiozia di questo commento è bastata da sola a convincermi e investire una rata di mutuo in biglietti del Cinestar di Potsdamerplatz e pop corn, per due motivi. In primo luogo perché i film sui supereroi scandinavi esistono e portano il nome della saga di Thor, e in secondo luogo perché l’animale di riferimento è l’orso, visto che trovare pantere nella mitologia norrena sarebbe quantomeno bizzarro.

Black Panther: la trama

Facciamo una breve sinossi del film, prima di ripiombare nel meraviglioso mondo dei “fatti miei”. Wakanda è una nazione situata da qualche parte nel cuore del continente Africano, che nasconde al mondo la sua vera natura. Migliaia di anni fa, sul territorio oggi occupato da Wakanda, si è schiantato un meteorite contenente un materiale alieno, il vibranio, il quale ha modificato la natura circostante, dando origine a particolari piante dalle foglie a forma di cuore. Un guerriero che, avendo mangiato le piante contaminate, ha sviluppato dei superpoteri, è diventato la prima “Black Panther” e ha riunito sotto il suo saggio comando le tribù circostanti. Il vibranio, oltre ad alimentare le super-piante, si presta a una varietà di altri usi, e permette al popolo di Wakanda di sviluppare tecnologie avanzatissime. Per proteggersi dal resto del mondo, tuttavia, Wakanda sceglie di nascondere il proprio progresso facendosi passare per un poverissimo paese del terzo mondo, ma con una fitta rete di spie negli altri continenti. La nostra storia prende le mosse quando, negli anni 90, il re di Wakanda T’Chaka scopre che il proprio fratello N’Jobu, che vive sotto copertura negli Stati Uniti, ha aiutato il trafficante d’armi sudafricano Ulysses Klaue a rubare del vibranio. N’Jobu viene ucciso, ma si lascia dietro un figlio, che cresce senza padre e lontano da Wakanda. Nel frattempo il figlio di T’Chaka, il giovane T’Challa, gli succede sul trono, sconfiggendo in un combattimento rituale il leader di una tribù rivale, M’Baku. In una prima fase sembra che il problema principale di Wakanda sia ancora il perfido Klaue che tenta di rubare il vibranio, ma presto si scoprirà che la vera minaccia è il figlio orfano di N’Jobu, Erik Stevens. Il rancore per l’abbandono e le privazioni subite, mentre Wakanda prosperava senza di lui, ne hanno fatto un avversario micidiale che rischia di sovvertire la pace di Wakanda. Il suo piano è utilizzare le tecnologie al vibranio per creare un esercito invincibile, in grado di ribaltare la dominazione bianca del mondo, trasformandola in una dominazione nera, invertendo i ruoli fra oppressori e oppressi. Il finale non ve lo spoilero, ma è un film di supereroi, ci potete arrivare. La tensione narrativa si realizza fra due poli: uno che potremmo definire “Malcolm X”, che auspica il sovvertimento dei ruoli e la supremazia di Wakanda sul resto del mondo, e uno che, per contrasto, troviamo più vicino ai valori di Martin Luther King, e che punta alla cooperazione fra tutte le civiltà e tutte le culture, per scardinare il principio stesso di supremazia.

Che cosa ha di così straordinario questo film? Certo, è fatto meravigliosamente, scritto bene e recitato meglio, con il livello di cgi e le prodezze registiche alle quali la Marvel ci ha abituati e che rendono sempre piacevole una serata al cinema. Basterebbe tutto questo a renderlo straordinario? No, tutto questo basterebbe a renderlo un buon film di supereroi. Perché, dunque, tutto questo clamore intorno a Black Panther? Perché la rappresentazione conta.

Chi ci dice in chi dobbiamo identificarci?

Torniamo per un attimo al meno che indispensabile punto di vista di uno spettatore bianco. All’interno della sala, ero una delle pochissime persone caucasiche (checché ne dica la sicurezza aeroportuale di Tegel, alla quale non riesco a spiegare che no, non parlo arabo, davvero, no, non sto facendo finta, e sì, il Salento è in Europa, per ora) e l’unica non tedesca. Come se non bastasse, sono quasi completamente digiuna di supereroi e quelli della Marvel sono fra i pochi fumetti che non ho mai letto. Mi sono quindi disposta a sperimentare questo colossale senso di esclusione di cui tanto avevo letto. “Mi sentirò finalmente come i settentrionali che guardano Gomorra coi sottotitoli?” pensavo, aggiustandomi gli occhiali 3D sopra quelli da vista. Perché a quanto pare, per i critici del film, il problema è proprio questo: se non c’è nessuno che “somigli” a me, io non posso identificarmi nei personaggi del film e mi sento escluso. Ora, in quanto donna cresciuta identificandosi con il Robin Hood della Disney, ovvero con un maschio di volpe rossa in calzoncini e cappello, questa affermazione mi aveva lasciata un po’ perplessa. Voglio dire, mi sono identificata pure con Wolverine in Logan, per quale bizzarro motivo dovrei avere più problemi con un cast di attori neri che non hanno neanche gli artigli?

Scherzi a parte, vedere Black Panther ci mette davanti a quanto il nostro concetto di ciò che è bello e desiderabile sia interamente manipolato dalle rappresentazioni culturali che ci circondano. Uno dei grandissimi meriti di questo film è quello di celebrare la bellezza di corpi e stili estetici diversi da quelli che siamo abituati a vedere protagonisti delle rappresentazioni culturali occidentali. Certo, parliamo sempre di corpi statuari, ma che non incarnano i canoni di grazia eurocentrica. La bellezza dei corpi maschili e femminili in Black Panther è sfacciata, aggressiva, violenta: tutto il contrario di ciò che ci hanno insegnato ad aspettarci dalla bellezza. Siamo abituati a lodare una bellezza che non si compiace, che un po’ si vergogna, che quasi si scusa, soprattutto se si tratta di bellezza femminile. Le donne, in Black Panther, non si scusano e non aspettano le decisioni degli uomini: anche in questo si sovvertono tanto gli stereotipi hollywoodiani quanto quelli che un certo cinema ha associato alle comunità afroamericane.

Le donne guidano l’azione, hanno obiettivi da perseguire e competenze specifiche. Le loro storie non sono messe al servizio di quelle dei protagonisti maschili e la sottotrama romantica è – con grande gioia mia e di tutti quelli che hanno fatto di René Ferretti un maestro di vita – relegata talmente in fondo alla narrazione da risolversi in un paio di battute e un unico bacio alla fine. E i bianchi? Che ruolo hanno i bianchi all’interno di questa gloriosa rappresentazione del migliore Afrofuturismo in circolazione? Ce ne sono essenzialmente due. Uno è il prevedibile cattivo da cartone animato, Ulysses Klaue: è avido, sleale, ride quando ammazza la gente e ha un cannone bionico al posto del braccio. Il secondo, interpretato da Martin Freeman, è l’agente della CIA Everett K. Ross, ed è un’altra chicca del film, forse il più sottovalutato colpo di genio dell’intera narrazione. In Black Panther il “bianco buono” ha esattamente lo stesso ruolo che il “nero buono” ha avuto in centinaia di film, da Die Hard a Ghost: la linea comica. L’agente Ross è fondamentalmente un eroe positivo, ma è sempre quello che ne capisce meno di quanto sta succedendo, si applica, ma è involontariamente buffo. Fa quello che gli viene detto e, alla fine, ha l’opportunità di compiere un atto di eroica abnegazione per permettere al protagonista di trionfare. Se questa collocazione così marcata vi disturba anche solo un po’, se vi mette a disagio il fatto che un personaggio sia infilato in un ruolo di poco spessore e con una storia neanche abbozzata solo in base alla sua appartenenza etnica… ecco, appunto. E sia chiaro, il ruolo di Martin Freeman è un bel ruolo, ma non scopriamo nulla del suo passato, delle sue motivazioni, del suo carattere: esiste solo in funzione del suo essere strumentale alla storia principale. Avete presente quello che sappiamo del poliziotto nero e simpatico di Die Hard? Esattamente.

Nota a margine: zitti zitti, questi signori della Marvel, stanno facendo un lavoro colossale sulla rappresentazione. Sono riusciti, ben prima di produrre Black Panther, a tirare fuori gli unici due esempi di eroi positivi con problemi di salute mentale (Iron Man, in Iron Man 2, soffre di attacchi di panico, Jessica Jones di PTSD), hanno portato sugli schermi di Netflix un personaggio LGBT la cui personalità non è ridotta all’orientamento sessuale (Jeri Hogarth, ancora in Jessica Jones), hanno infilato all’incrocio dei pali una riflessione sul concetto di identità di un popolo privato della propria terra (Thor – Ragnarok). Qui va a finire che, di nascosto da tutti, questi tirano su una generazione di ragazzini abituati ad apprezzare la diversità, a considerare le opinioni di una donna prima del suo giro-vita, a pensare che un uomo possa avere un attacco di panico ed essere comunque un supereroe e, in generale, a comportarsi con lo stesso livello di rispetto e umanità con chiunque abbiano a che fare.

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