I turchi a Berlino e in Germania: come, quando, perché

di Arianna Tomaelo

Chiunque, presto o tardi durante la propria permanenza a Berlino, si è posto almeno una volta la domanda del perchè tanti turchi abbiano scelto la capitale tedesca come destinazione. Per quanto qualsiasi capitale europea possa essere considerata multiculturale e ricca di etnie differenti, a Berlino si percepisce immediatamente, infatti, che questa comunità è decisamente più numerosa. La metropoli tedesca è infatti considerata la capitale turca d’Europa, con più di cento moschee e 200 mila abitanti di origine turca, mentre più di un milione e 500 mila vivono complessivamente in Germania.

La loro storia inizia contemporaneamente al miracolo economico promosso dal Piano Marshall, quando gli occhi della comunità internazionale erano puntati sulla ricostruzione di metà Germania, rallentata dall’assenza di manodopera. Questo era dovuto al fatto che la guerra avesse decimato la popolazione maschile tra i 18 e i 40 anni. Così, preceduto da un accordo simile instaurato con l’Italia nel 1955 (e altri che seguirono sullo stesso stampo con diversi Paesi europei in situazione di crisi economica, come Grecia e Portogallo), nel 1961 fu firmato un importante accordo turco-tedesco che segnava l’apertura di una nuova tratta con partenza Ankara e Istanbul, e destinazione Monaco di Baviera, centro di smistamento dei guest workers durante gran parte della seconda metà del secolo scorso.

Nove uomini su dieci provenivano dalle zone rurali più povere della Turchia, erano contadini o lavoratori agricoli e per lo più non avevano letteralmente idea di cosa significasse essere impiegati in fabbrica. Venivano reclutati a distanza con contratti di un anno, prorogabili fino a due o cinque, a seconda della necessità del datore di lavoro, ma sostanzialmente il punto era che il lavoratore era solo di passaggio e per questo arrivava solo e senza famiglia: tanto, prima o poi, avrebbe dovuto far ritorno a casa. Ancora meglio se non conosceva una parola della lingua tedesca, così da scongiurare il rischio di integrazione nella comunità.
Da Monaco venivano poi reindirizzati a Berlino, Stoccarda e agli altri centri industriali del Paese, stipati in piccoli monolocali o grandi stabilimenti costruiti appositamente accanto alle fabbriche, pensati per facilitare l’alternanza lavoro-riposo.

Tra il 1968 e il 1973, due periodi di crisi si ripercossero sulla produttività dell’industria tedesca e molti turchi vennero rispediti al Paese d’origine, con la promessa di essere richiamati al bisogno. E così accadde: gli anni ’70 furono segnati non solo da una seconda imporante chiamata dei lavoratori turchi presso le fabbriche tedesche, ma anche da un appello lanciato alle loro stesse consorti, figlie e nipoti, che vennero introdotte prevalentemente nell’industria tessile (tradizionalmente sede di sfruttamento per i lavoratori stranieri).
Da questo quadro si può evincere una conclusione importante: che la comunità turca in Germania rappresentava quel che erano (o sono?) gli italiani in America, i latini in Spagna e gli albanesi in Italia. Erano la categoria mal pagata, gli immigrati che accettavano salari più bassi, gli stranieri vittima di angherie ed episodi di razzismo, che vivevano con il terrore costante di ricevere una lettera in cui li si informava che non servivano più, che potevano tornarsene a casa, che “avanti il prossimo”.

Ma negli anni ’70 la comunità turca era oramai felicemente insediata in territorio tedesco e pur facendo i lavori più umili, aveva trovato un equilibrio. Le famiglie si erano ricongiunte, grazie alla possibilità di impiego per tutti i componenti, nel giro di un decennio molte di loro avevano potuto acquistare casa, gli immigrati di prima generazione avevano ottenuto la cittadinanza o erano riusciti a regolarizzare il proprio status grazie alla concessione di asilo, mentre i loro figli frequentavano la scuola tedesca e parlavano fluentemente la lingua. Insomma, queste persone non avevano alcuna intenzione di far ritorno in Turchia.
Purtroppo, però, al secondo periodo di recessione degli anni ’70 seguì una legge per bloccare l’immigrazione dei lavoratori stranieri in Germania (Anwerbestopp): ciò non fece che incoraggiare l’entrata illegale nel Paese e il lavoro nero.

Il passaggio tra gli anni ’70 e i successivi anni ’80 fu scombussolato e travagliato: l’economia si stava riprendendo e ricominciava a crescere il bisogno di manodopera, ma il loop “rotazione-integrazione” non si fermava. Da un lato il governo si sentiva in diritto di appellarsi all’accordo del 1961 e quindi di pretendere che i turchi lasciassero lo Stato, in virtù della cosiddetta “rotazione” dei lavoratori, appunto. Dall’altro quella turca era diventata ormai una comunità troppo stabile per  poter ignorare la necessaria integrazione, senza contare che i richiedenti asilo non potevani certo essere espulsi.
Il governo Kohl si trovava non poco in difficoltà, perché per risolvere una crisi interna rischiava di scatenarne una di respiro internazionale.
Quando sembrava che si fosse deciso di optare per la via dell’integrazione, accadde l’inevitabile: la caduta del Muro e il ricongiungimento delle due Germanie, un evento di fronte al quale la comunità turca, che già stava aspettando da trent’anni, dovette lasciare spazio.
Il risultato di questi turbolenti ’90 furono tensioni sociali, schock culturale e ritorno delle vecchie glorie razziste, gruppi xenofobi che si appellavano all’odio verso lo straniero come causa del mancontento sociale.


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E oggi? Di fronte all’emarginazione degli anni ’90, nella maggiornanza dei casi la comunità turca ha fatto della componente religiosa il proprio scudo contro il sentimento di rifiuto da parte degli autoctoni. Come sempre, dunque, quando si parla di integrazione è bene non fare di tutta l’erba un fascio: molto spesso non è la religione che divide, ma viene usata come ancora di salvataggio dove non arriva una risposta da parte della società.
Se ciò da una parte ha fomentato l’odio razziale, quindi, d’altro canto ha acuito la segregazione di un gruppo già di per sè appartato, sempre più incline a radicarsi tra Neukölln e Kreuzberg, che ad oggi sono consciuti come i quartieri “turchi” di Berlino.
Con l’inizio del nuovo millennio la situazione è decisamente migliorata, grazie a interventi dello Stato (che con misure preventive, come corsi di lingua gratuiti, cerca di favorire l’integrazione) e a una trasformazione della società (più abituata al melting pot), anche se gli indici di scolarizzazione indicano che, per ragioni culturali, la comunità turca è sempre la più propensa all’abbandono scolastico, cosa che porta all’invitabile costruzione di una piramide sociale che riproduce, attualizzandoli, i vecchi squilibri.
Insomma, la comunità turca si può dire ad oggi ben posizionata all’interno della società tedesca: per arrivare a dire che è ben integrata dovremo aspettare ancora un po’.

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