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L’immigrazione e l’asilo politico in Germania: una panoramica

di Nina Roßmann e Paul Sullivan*
traduzione di Monica Cainarca 

L’immigrazione e l’asilo politico in Germania: una panoramica  – Se visitate il Reichstag di Berlino, guardando giù da una delle balconate superiori della cupola potrete intravedere le parole “der Bevölkerung” (“alla popolazione”). È facile notare la scritta, stampata in caratteri al neon in mezzo a un’aiuola di piante, ma forse il suo significato è un po’ più difficile da comprendere a fondo. L’installazione, creata dall’artista tedesco-americano Hans Haacke, è ispirata a una frase di Berthold Brecht: «Wer in unserer Zeit Bevölkerung statt Volk […] sagt, unterstützt schon viele Lügen nicht» (“nella nostra epoca, parlare di popolazione invece che di popolo o razza… è un semplice atto per rifiutare il proprio sostegno a tante bugie”). Quando fu presentata la proposta del progetto suscitò molte polemiche, sia per le parole che per i materiali usati. Le critiche giunsero da posizioni opposte: per Antje Vollmer dei verdi, l’idea di Haacke, che prevedeva anche l’utilizzo di campioni di terreno da ciascuna delle circoscrizioni elettorali della Germania, invocava le terribili associazioni al concetto di “sangue e suolo” dell’ideologia nazista; per Volker Kauder dei democristiani tedeschi, invece, la scelta di contrapporre al termine abusato dai nazisti Volk (popolo) la parola più generica e neutrale Bevölkerung era in sé un modo di “denigrare il popolo tedesco riducendolo a un breve periodo della sua storia” e di indurre una “dissociazione tra il Bundestag tedesco e il suo stesso popolo”.

L’opera di Haacke rispecchia una domanda che è diventata sempre più centrale negli ultimi decenni: chi è esattamente il popolo tedesco? Il metodo tradizionale europeo di stabilire la nazionalità in base allo ius sanguinis, per discendenza, richiamato nella scritta sul frontone del Reichstag, è stato messo in discussione da ondate successive di immigrati che non hanno sangue tedesco ma si considerano comunque tedeschi.

Un Paese di immigrazione?

La Germania accoglie immigrati da più di un secolo, ma il fenomeno si è intensificato negli anni del boom del dopoguerra, quando l’esigenza di manodopera aggiuntiva per sostenere il Wirtschaftswunder, il miracolo economico, spinse a reclutare ufficialmente i cosiddetti “lavoratori ospiti” (Gastarbeiter) da altri Paesi come Italia, Spagna, Grecia, Turchia, Portogallo e Jugoslavia.

Questa importazione di lavoratori ebbe un brusco arresto dopo la crisi energetica del 1973, che catapultò la Germania nella recessione spingendola a vietare l’assunzione di lavoratori immigrati. A quell’epoca molti dei “lavoratori ospiti” (principalmente uomini) avevano già fatto arrivare mogli e figli con i permessi di ricongiungimento familiare e in generale la popolazione di immigrati continuava a crescere invece di diminuire. La combinazione di numeri sempre maggiori di immigrati e scarsità di lavoro disponibile creò un risentimento generale, al punto che il governo tentò di convincere i lavoratori stranieri a tornare nei propri Paesi invece di stimolarne l’integrazione.

Nel 1982, il governo conservatore dichiarò chiaramente nel proprio accordo di coalizione che “la Germania non è un Paese di immigrazione”. Lo stesso partito, una volta ritrovatosi all’opposizione, si schierò anche contro l’introduzione della doppia cittadinanza, prevista da una proposta di riforma della legge tedesca sulla nazionalità. La riforma fu poi promulgata nel 2000, poco dopo l’installazione della controversa opera di Haacke, e concedeva ai figli degli immigrati la cittadinanza tedesca dalla nascita (secondo il principio dello ius soli), in aggiunta a quella del Paese di origine dei genitori, a condizione che almeno uno dei genitori fosse legalmente residente in Germania da un minimo di otto anni. Fu un “passo di dimensioni storiche”, secondo l’allora Ministro degli Interni Otto Schily.

Non era però una legge perfetta; come concessione alla forte opposizione dei partiti conservatori, si era infatti aggiunta una limitazione: una volta compiuti 23 anni, gli immigrati di seconda generazione dovevano scegliere tra la nazionalità tedesca e quella di origine. Solo a partire da quest’anno potranno mantenere entrambi i passaporti, quando sarà finalmente introdotta la doppia cittadinanza senza limitazioni, dopo l’approvazione finale del progetto di legge da parte del Bundesrat (il Consiglio federale tedesco che rappresenta tutti i Länder), prevista per dopo l’estate.

Nel 2005, fu promulgata un’altra legge sull’immigrazione (Zuwanderungsgesetz), che mirava ad affrontare tutti gli aspetti dell’immigrazione, con nuove regole sui permessi di lavoro per i lavoratori altamente qualificati e autonomi, un’espansione dei criteri per l’ammissione di rifugiati (in particolare nei casi di persecuzione da parte di soggetti non statali e per motivi di genere), oltre a un rafforzamento delle misure per sostenere l’integrazione in generale. Anche se la nuova legge non rispondeva in pieno alle aspettative del governo della coalizione rosso-verde allora in carica, rappresentava un aperto riconoscimento sia dell’esigenza di plasmare attivamente l’afflusso migratorio favorendo l’integrazione, sia della realtà ormai evidente che la Germania è, di fatto, un Paese di immigrazione.

Durante un recente discorso alla vigilia del 65mo anniversario della costituzione tedesca (la cosiddetta “Legge fondamentale”, Grundgesetz), il Presidente tedesco Joachim Gauck ha dichiarato che nonostante i tedeschi tendano ancora a pensare agli immigrati in termini di distinzione tra “noi e loro”, la sua convinzione è che esista ormai un nuovo “noi” per la Germania, una “unione delle diversità” (Einheit der Verschiedenen); è un ulteriore riconoscimento ufficiale che la coesistenza di diverse culture è stata un arricchimento per la società tedesca.

Oggi un tedesco su cinque proviene da un contesto di immigrazione e cresce sempre più il numero di persone che si trasferiscono in Germania; si può quindi effettivamente definire un “Paese di immigrazione”. I nuovi arrivati però si distinguono in due categorie: quelli che vengono invitati a trasferirsi qui, i migranti altamente qualificati che la Germania vuole attirare per ovviare alle carenze di manodopera specializzata, e quelli che arrivano di propria iniziativa, come i rifugiati e i richiedenti asilo (definiti come coloro che sono ancora in attesa di una decisione da parte delle autorità del paese ospitante riguardo al riconoscimento dello status di rifugiato).

Questo forse significa che la Bevölkerung include davvero chiunque viva in Germania oggi? Be’, non proprio. I richiedenti asilo, anche se vivono qui da molti anni, spesso passano ancora tra le maglie della rete. Un figlio di rifugiati che è nato o cresciuto in Germania e non ha mai vissuto altrove non è automaticamente considerato tedesco e potrebbe comunque rischiare l’espulsione. Secondo cifre ufficiali del governo tedesco, uno su sei Rom espulsi e rimandati in Kosovo ha vissuto in Germania per più di 14 anni; molti di loro sono bambini e giovani.

Una breve storia del diritto d’asilo politico in Germania

Un tempo la Germania aveva una politica molto liberale in materia di asilo. Dopo gli orrori del regime nazista, il principio di asilo fu sancito nella costituzione all’Articolo 16, che garantisce ai perseguitati politici l’asilo in Germania per alleviare sofferenze future inflitte da conflitti ed espulsioni.

Quando i nazisti iniziarono lo sterminio degli ebrei in Germania, circa 700.000 furono costretti a fuggire dalla Germania e cercare asilo in altri Paesi. D’altra parte, dopo la guerra un numero enorme di profughi tedeschi dagli ex territori del regime dovette essere assorbito nei nuovi confini nazionali.

Fino agli anni ’70, solo un esiguo numero di rifugiati, principalmente dall’ex blocco sovietico, faceva domanda di asilo in Germania. Solo a partire da quel decennio, grazie anche alla sempre maggiore convenienza e accessibilità dei viaggi aerei, sono arrivati in Germania numeri sempre maggiori di richiedenti asilo da zone di crisi del (cosiddetto) Terzo Mondo, una tendenza che ha visto un aumento costante negli anni ’80 e ’90, fino ad arrivare a più di 400.000 richieste di asilo nei primi anni ’90 a seguito della guerra in Jugoslavia.

Dopo la riunificazione tedesca, sono cresciuti in parallelo sia il risentimento tra la popolazione tedesca (nell’est come nell’ovest) sia i proclami populisti, aizzati da politici di rilievo quali il segretario generale del partito democristiano (CDU) Volker Rühe, e culminati in una serie di incidenti xenofobi quali gli attacchi ai venditori ambulanti vietnamiti durante i disordini di Hoyerswerda nel 1991, la tragedia del 1992 a Rostock-Lichtenhagen, dove i neonazisti diedero fuoco a un alloggio per profughi, e un altro attacco incendiario a Solingen nel 1993, nel quale due ragazze e due donne morirono nell’incendio appiccato alla loro casa.

Il successivo Asylkompromiss (compromesso sull’asilo) ha inasprito le restrizioni per i richiedenti asilo in Germania: chi proviene da Paesi di origine definiti come “sicuri” non ha alcun diritto all’asilo politico e una nuova normativa consente di esaminare le richieste (e respingere i rifugiati) direttamente all’aeroporto. Inoltre, chi arriva da Paesi terzi sicuri (in genere altri stati dell’UE) non ha diritto di asilo in Germania e può essere rimandato al primo Paese di approdo. Questo meccanismo di deterrenza è stato successivamente incorporato nelle leggi dell’Unione Europea come regolamento di Dublino II. La conseguenza di tutto questo è che rende quasi impossibile l’accesso per vie legali.

La conseguenza di tutto questo è che rende quasi impossibile l’accesso per vie legali. Queste modifiche delle normative hanno spinto l’autore tedesco di origini iraniane Navid Kermani a denunciare la “mutilazione” dell’Articolo 16, che avrebbe “praticamente abolito il diritto di asilo come legge fondamentale”.

Di conseguenza, nel 2013, solo l’1,1% dei richiedenti asilo (pari a 919 persone) è stato accettato in base all’Articolo 16 della costituzione (Grundgesetz) per persecuzione politica; il 12,4% (9.996 persone) ha ottenuto l’asilo politico nel rispetto della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati, e l’11,4% (9.213 persone) ha ottenuto la protezione sussidiaria. La stragrande maggioranza delle richieste di asilo (il 75,1%, pari a 60.850 richiedenti) non sono state accettate, in circa 30.000 casi perché la Germania non ne era responsabile, ai sensi del regolamento di Dublino che consente di rimandare i rifugiati nel Paese di primo approdo.

Secondo l’organizzazione Pro Asyl, tuttavia, la maggioranza dei rifugiati respinti rimane comunque in Germania, perché la deportazione immediata non è possibile date le condizioni critiche nei Paesi di origine. Alla fine del 2013, in Germania c’erano 94.508 di questi rifugiati “tollerati” (secondo la definizione tedesca di “geduldete Flüchtlinge”), di cui il 34,5% (32.640 persone) è qui da più di 6 anni e il 23,6% (22.361) da più di 10; per il 26,9% (25.469) sono bambini e adolescenti.

Si intravedono però dei miglioramenti: l’accordo di coalizione dell’attuale governo prevede una sanatoria per i rifugiati “tollerati” che vivono in Germania da più di otto anni (sei per le famiglie con bambini), concedendo loro un permesso di soggiorno (rinnovabile) di 2 anni, a condizione che siano in grado di provvedere al proprio sostentamento o di avere buone probabilità di farlo in futuro. Resta da vedere se questa nuova misura sull’immigrazione manterrà le promesse: è intesa in senso più ampio di quelle precedenti, ma i pareri delle organizzazioni che si occupano di rifugiati sono divisi.

Una società accogliente?

Le politiche di asilo e di immigrazione tendono a essere considerate questioni separate: da una parte un obbligo umanitario, dall’altra un mezzo per contrastare il declino demografico e migliorare l’economia. Di pari passo, gli immigrati tendono a essere percepiti in due modi diversi: quelli “utili”, la manodopera specializzata di cui la Germania ha bisogno e che vuole importare da altri Paesi, e quelli “inutili”, le persone non invitate che decidono di venire qui per conto proprio e alle quali viene a volte compassionevolmente concesso di restare.

Il secondo scenario, che di solito implica l’assenza di canali legali per entrare in Germania e un blocco totale dell’accesso al mercato del lavoro e a tentativi di integrazione, non si può certo descrivere come particolarmente “accogliente”. A parte poche eccezioni (per esempio se un rifugiato ha già parenti stretti in Germania), l’unico modo legale di entrare è tramite la Blue Card o il programma di reinsediamento dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.

La Blue Card, come la Green Card degli Stati Uniti, consente ai migranti altamente qualificati di entrare nell’Unione Europea, ma i criteri sono di solito troppo alti per applicarsi ai rifugiati che abbandonano in fretta il proprio Paese. Tanto per cominciare, per richiedere la Blue Card occorre aver già trovato un lavoro con un salario di 47.600 euro all’anno (37.100 euro per lavori con carenza di manodopera): anche i cittadini altamente qualificati di altri Paesi europei spesso faticano a trovare lavori di questo tipo a Berlino.

Non sorprende quindi che il numero di lavoratori altamente qualificati che entrano in Germania con la Blue Card è rimasto ben al di sotto delle aspettative: solo 7.000 persone hanno l’hanno usata dalla sua introduzione nel 2012 ad oggi, e di esse 4.000 vivevano già qui. Il numero di rifugiati che la Germania riceve ogni anno tramite il programma di reinsediamento dell’UNHCR è 300, il che equivale a 4 rifugiati per ogni milione di abitanti. Per mettere queste cifre in prospettiva, basta considerare che la Svezia ne accetta 140 per milione di abitanti e gli Stati Uniti 170.

Situazione in miglioramento o circolo vizioso?

L’anno scorso la Germania si è impegnata ad accogliere 20mila profughi dalla Siria nel contesto del programma di ammissione umanitaria dell’UNHCR, avviando anche nuovi programmi di ricongiungimento familiare in 15 stati federali tedeschi (a condizione che i parenti già in Germania possano provvedere al loro sostentamento; le spese di assicurazione sanitaria sono invece coperte dai Länder). È un’iniziativa che desta qualche speranza per una maggiore responsabilità umanitaria, oltre al fatto che ai profughi siriani ora è consentito lavorare da subito. E il regolamento di Dublino III, che è entrato in vigore il 1 gennaio 2014, ha anche portato miglioramenti alla legislazione tedesca, per esempio per quanto riguarda la protezione dei minori non accompagnati e l’obbligo di informare i richiedenti asilo dei loro diritti. Ma il principio di rispedirli al Paese di primo approdo resta ancora in vigore.

Non solo: i richiedenti asilo che sono riusciti ad entrare in Germania si trovano ad affrontare ancora molti ostacoli sul percorso verso l’integrazione. Le condizioni sfavorevoli nei centri di accoglienza tedeschi sono state al centro dell’attenzione dei media internazionali, così come le rigide regole che impediscono ai rifugiati di attraversare determinati confini all’interno del territorio nazionale, stabiliti dall’autorità competente dello stato federale dove è stata presentata la richiesta di asilo (il cosiddetto Residenzpflicht, “obbligo di residenza”).

In alcune parti della Germania, inoltre, i rifugiati ricevono solo buoni acquisto di alimentari e generi di necessità, invece di contanti: è un ulteriore deterrente introdotto negli anni ‘90 per scoraggiare l’entrata o la permanenza in Germania (una regola che Berlino e alcuni altri stati federali hanno nel frattempo abolito). Ai richiedenti asilo è anche negato il diritto di lavorare per i primi nove mesi dal loro arrivo. Per i rifugiati “tollerati”, le cui richieste di asilo sono state già respinte ma che non possono essere deportati, il periodo è ancora esteso a un anno, anche dopo le modifiche del 2013 alla legislazione sul lavoro.

Anche se il divieto di nove mesi fosse ridotto a tre, come ha promesso il governo, l’accesso al mercato del lavoro è comunque molto limitato. Secondo la regola della Vorrangprüfung (verifica preliminare) è infatti necessario dimostrare che non si è potuto trovare per quel particolare lavoro nessun altro cittadino tedesco o di altri Paesi dello SEE (Spazio Economico Europeo), inclusa la Svizzera, o di altri stati che hanno accesso senza restrizioni al mercato del lavoro in Germania. Questa regola si applica per i primi quattro anni di permanenza in Germania del richiedente asilo (o rifugiato tollerato) ed è consentito seguire corsi di formazione professionale solo dopo un anno.

È ovvio che si tratta di un forte ostacolo all’integrazione. Come già osservato, molti rifugiati restano in Germania per vari anni come “tollerati”. Secondo l’organizzazione Pro Asyl, si stanno ripetendo gli stessi errori commessi con i Gastarbeiter, che erano considerati immigrati temporanei ma sono rimasti poi in Germania; anche in questo caso si sta perdendo l’opportunità di investire da subito nell’integrazione. Nel 2010, fece scalpore l’affermazione della cancelliera Angela Merkel che il multiculturalismo “è fallito totalmente” e che “gli errori degli ultimi 30 o 40 anni non possono essere risolti così rapidamente”. Se partiamo dal presupposto che la visione più fiduciosa di Joachim Gauck sulla “unione delle diversità” rispecchi effettivamente un maggiore ottimismo tra la popolazione, è ancora più importante non perdere di nuovo quella occasione.

È anche vero che di recente la Germania è stata sottoposta a una certa pressione in questo senso: nel 2013, ha ricevuto il più alto numero di rifugiati dai primi anni ’90, quando il diritto di asilo era ancora più limitato. Berlino in particolare affronta una situazione di sovraccarico per via del gran numero di rifugiati che entrano in Germania dalla capitale, anche se i piani federali di distribuzione prevedono che lo stato di Berlino ne accolga solo il 5%. Di conseguenza, ci sono stati casi in cui le autorità hanno sistemato temporaneamente i rifugiati, tra cui famiglie intere con bambini, in alloggi per i senzatetto, senza però fornire pasti o cure mediche. Di recente, nuovi centri per profughi sono stati allestiti in aree residenziali, suscitando paure ancestrali verso gli stranieri.

In aree come Hellersdorf e Westend nel quartiere più borghese di Charlottenburg, alcuni dei residenti hanno reagito con scetticismo se non addirittura, come nel caso di Hellersdorf, con aperte manifestazioni di razzismo, fomentato da gruppi neonazisti. Le accuse rivolte verso questi centri e i loro abitanti sono note: il crollo dei prezzi degli immobili nella zona, l’aumento della criminalità, un risentimento generale verso gli “stranieri” percepiti come approfittatori che sfruttano “il nostro benessere”.

Nel nostro recente articolo sulle attuali proteste dei rifugiati a Berlino, avevamo incontrato Habir, un profugo afgano. Habir è uno dei fortunati: dopo tre anni in Germania, una richiesta di asilo inizialmente respinta e una serie di permessi di soggiorno di 6 mesi per volta, ora finalmente ha ricevuto un permesso temporaneo di residenza che gli consente anche di lavorare, almeno fino al 2017.

Ma anche questo crea direttamente un nuovo problema: il tipo di lavoro che gli è consentito svolgere. In Afghanistan lavorava come elettricista, ma non gli sarà facile trovare l’opportunità di impiegare quelle competenze in Germania. Anche se sono state introdotte misure per favorire il riconoscimento delle qualifiche professionali acquisite in altri Paesi, con una legge apposita e una rete di centri di consulenza oltre a un programma nazionale, rimangono comunque parecchi ostacoli.

Alcuni dei problemi che i rifugiati in Germania devono affrontare includono: dover sostenere da soli i costi delle traduzioni e le spese burocratiche correlate, documentazione mancante (o perché è stata lasciata indietro durante partenze improvvise o perché il Paese di origine si rifiuta di fornirla), errori nelle traduzioni di importanti documenti e trascrizioni, oppure difficoltà del personale amministrativo che non sa come gestire, ad esempio, versioni multiple dei nomi dei rifugiati derivanti da sistemi diversi di nomenclatura.

Non è solo uno spreco del potenziale individuale di queste persone: più tempo passa senza utilizzare le qualifiche acquisite, più perdono occasioni di inserirsi nel mercato finché diventa davvero difficile riprendere il lavoro per cui si erano qualificati. È anche una situazione paradossale: se da una parte il sistema ostacola l’accesso dei rifugiati al mercato del lavoro e all’apprendimento della lingua tedesca (a parte alcuni progetti modello, non sono previsti a livello nazionale corsi di lingua per i rifugiati “tollerati” e i richiedenti asilo), dall’altra insiste, come ulteriore requisito per favorire o acquisire la residenza, sull’importanza di non ricevere sussidi statali.

Così, con una scarsa conoscenza del tedesco e di fronte a tanti ostacoli, non sorprende che soprattutto i rifugiati “tollerati” rischino di finire a lavorare nei settori più scarsamente retribuiti.

Ripensare la questione dell’asilo

Molti di noi apprezzano e accettano che una delle attrattive principali di Berlino, o di qualsiasi altro centro metropolitano, è la sua diversità. Nella capitale tedesca vivono più di 190 nazionalità diverse, che spesso contribuiscono alla sua ricchezza culturale e al suo potenziale creativo. È ovvio che il modo in cui accogliamo e trattiamo i richiedenti asilo plasma sia la nostra immagine di noi stessi come tedeschi che l’immagine della Germania vista dagli altri Paesi. Se abbiamo l’esigenza di aprire il mercato del lavoro alla manodopera specializzata per colmare le lacune e contrastare il declino demografico, perché non utilizzare al meglio il potenziale che è già qui?

Dopo la tragedia di Lampedusa, si è riconosciuta la necessità di riesaminare la questione dell’asilo in Europa e i politici hanno iniziato a proporre nuove strategie. Martin Schulz, presidente del Parlamento Europeo, ha invocato un radicale ripensamento dell’Europa come continente di immigrazione, nel quale la Germania deve assumere la propria responsabilità come Paese più ricco e più politicamente forte, accettando più rifugiati. Inoltre, i richiedenti asilo devono avere la possibilità di entrare in Europa legalmente ed essere distribuiti in base alla capacità dei diversi stati membri.

La posizione di Schulz sulla necessità di inserire il problema dell’asilo nel contesto più ampio di una politica di immigrazione più liberale in Europa è sostenuta da esperti come Klaus J. Bade, presidente del Comitato di esperti delle fondazioni tedesche su integrazione e migrazione, che sostiene la possibilità di entrare legalmente in Germania oltre a un accesso più facile e flessibile al mercato del lavoro. Se fosse possibile fare richiesta di asilo da fuori, secondo Bade, con i permessi concessi in base a un sistema di crediti e i rifugiati distribuiti in base alla capacità di ogni stato dell’Unione Europea, i flussi di richiedenti asilo potrebbero essere gestiti meglio e molte sofferenze potrebbero essere alleviate.

Citando l’esempio del Canada che recluta già lavoratori tra i richiedenti asilo, Rita Süssmuth, ex ministro federale per la famiglia, gli anziani, le donne e i giovani, oltre che ex presidente della commissione indipendente sulla migrazione dal 2000 al 2001 (la cosiddetta “Süssmuth-Kommission”, una commissione di esperti fondata temporaneamente quell’anno allo scopo di fornire raccomandazioni per la legislazione in materia), di recente ha invocato una distribuzione più equa dei rifugiati tra i Paesi europei e una distinzione meno rigida tra migrazione e asilo.


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Certo, l’accettazione delle richieste di asilo deve essere sempre basata su motivi umanitari. Ma non ha senso sprecare il potenziale già esistente e respingere bruscamente le persone con le capacità lavorative di cui abbiamo bisogno. Star fermi ad aspettare senza far nulla mentre cresce la sofferenza alle porte della Fortezza Europa non è un’alternativa a soluzioni innovative e a un approccio di maggiore apertura. Potremmo concludere con le parole di Habir: «non tutti possono essere cristiani, non funziona così, non tutti possiamo essere uguali. Ci servono tante persone diverse, altrimenti il mondo perde “sapore”». Forse, la proposta di modifica della legge per concedere in pieno la doppia nazionalità ai figli degli immigrati nati in Germania può essere un segnale che la Germania finalmente è pronta ad accogliere il suo nuovo ruolo come Paese di immigrazione — e arricchire così il suo “sapore” come società.

AGGIORNAMENTI:

Il 3 luglio era stato raggiunto un accordo con i 40 rifugiati nella Gerhart Hauptmann Schule, che concedeva loro di restare in una parte dell’edificio. Ora però la protesta continua in un ostello nella Gürtelstraße a Friedrichshain: anche qui alcuni rifugiati hanno occupato il tetto dell’edificio, minacciando di buttarsi giù se non viene accolta la richiesta di un riesame delle domande di asilo, come appunto era stato promesso dal Senato berlinese a seguito delle trattative con i profughi del campo di protesta di Oranienplatz (si vedano gli articoli del Berliner Tagesspiegel del 27 agosto e 30 agosto).

Nel frattempo, però, è emerso che l’intero accordo del Senato con i rifugiati di Oranienplatz non è legalmente valido per via di una formalità, essendo stato firmato dalla Senatrice all’integrazione Dilek Kolat invece che dal Senatore agli Interni Frank Henkel a cui spetta la competenza in materia. L’accordo è così stato dichiarato nullo e le promesse fatte ai rifugiati si sono rivelate un bluff (taz, 1 settembre 2014; una traduzione in inglese dell’articolo è disponibile sulla pagina Facebook di Refugee Protestmarch to Berlin).

Per gli ultimi aggiornamenti sui temi dell’immigrazione qui trattati seguire
l’hashtag #ohlauer su Twitter e la pagina Facebook di OhlauerInfopoint).

* Questa inchiesta è stata pubblicata originariamente su Slow Travel Berlin e segue un altro interessante articolo che analizza la situazione dell’immigrazione e dei rifugiati a Berlino; l’articolo è pubblicato da Il Mitte con il consenso di Slow Travel Berlin e di Monica Cainarca, che ha curato la traduzione italiana presentata in anteprima sul suo blog. Su Twitter, Monica è @monberl

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