Salute mentale e colonialismo? Sono più legati di quanto non si creda. Intervista al Dr. Donato Zupin

Il Dr. Donato Zupin, ospite dell'evento "Madness" organizzato da Disruption Network Lab

La salute mentale è uno dei temi più importanti della nostra epoca, uno di quelli dei quali si dovrebbe parlare di più e più approfonditamente, ma anche uno di quelli dei quali si parla peggio. Spesso schiacciato fra lo stigma e il luogo comune, fra la patologizzazione parossistica e l’antipsichiatria di derivazione complottistica, il dibattito sulla salute mentale finisce spesso per stagnare o per perdersi in derive che non avvicinano minimamente alla creazione di un sistema in grado di aiutare e tutelare chi ne ha bisogno. Fra queste derive, specialmente dal lato dell’esercizio della psichiatria, rientrano i condizionamenti culturali nelle varie declinazioni del razzismo e della discriminazione, che spesso si fanno strada nei contesti di cura senza che nessuno si opponga apertamente.

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Contenuto promosso da Disruption Network Lab

Che rapporto c’è fra salute mentale e condizionamento culturale? Essere “sani di mente” in un certo contesto sociale, religioso, etnico, è la stessa cosa che esserlo altrove? Come si applicano queste considerazioni, per esempio, ai contesti della migrazione? Di questi e altri temi si tratterà nel corso di “Madness – Fighting for Justice in Mental Health”, la prossima conferenza di Disruption Network Lab, che si terrà a Berlino (ma anche in streaming online) dal 25 al 27 novembre (tutte le informazioni sono disponibili qui).

Uno dei panel, dedicato alla “decolonizzazione della psichiatria”, vedrà fra gli ospiti il Dr. Donato Zupin, psichiatra e Presidente della Sezione Speciale di Psichiatria Transculturale della Società Italiana di Psichiatria. Con lui ho avuto il piacere di discutere del modo in cui si inquadra il discorso sulla salute mentale, nei suoi intrecci con temi come il condizionamento culturale, la religione, il colonialismo, il pregiudizio.

Cominciamo con un quadro generale della Sua pratica. Lei opera a Trieste, in un punto dell’Italia cruciale non solo per l’immigrazione proveniente dalla rotta balcanica, ma anche storicamente coacervo di identità nazionali, regionali, locali e in vario modo stratificate che hanno dovuto e saputo coesistere in modi diversi nel corso della storia del nostro Paese e del continente Europeo. In che modo, secondo Lei, la contaminazione o, al contrario, la segregazione delle identità influenzano il modo in cui la psichiatria distingue ciò che è patologico da ciò che non lo è? In termini elementari: in che misura il concetto di “follia” è un concetto influenzato dalle fluttuazioni culturali?

Prima di tutto la ringrazio per la serietà e la profondità della domanda. Il concetto di follia, la sua definizione, l’idea di quali siano le cause e quali le soluzioni sono tutte variabili profondamente influenzato da fattori culturali, oltre che dalle condizioni politiche ed economiche. Due aspetti del disturbo mentale grave che cambiano in maniera sorprendente sono: quanto dura? Come si risolve? Noi in occidente siamo abituati a pensare che chi è folle è folle per sempre, e che anche con le migliori cure potrà solo migliorare un po’. Credo nascesse anche per questo l’idea terribile del manicomio, nella speranza di rinchiudere la parte considerata deviante della società in un luogo e uno spazio altri, una sorta di: “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. La cosa stupefacente è che questa forma di follia cronica, inguaribile, sembra essere un prodotto della nostra stessa società. Nelle culture extra-occidentali, soprattutto nei contesti non industrializzati, i disturbi mentali gravi si manifestano più frequentemente in forme brevi, transitorie, a risoluzione spontanea o con meno bisogno di farmaci.

Quindi la cultura può far ammalare ma può anche dare un orizzonte di guarigione. Questa che le sto esponendo non è un’esaltazione ingenua di una malintesa idea del “buon selvaggio” alla Rousseau, ma un dato epidemiologico ampiamente dimostrato. Un’altra cosa sorprendente è che, nonostante il legame tra occidentalizzazione e follia cronica sia ben dimostrato, la psichiatria generalmente riflette molto poco su questa questione. La psichiatria culturale è la disciplina che si è occupata di più di questo campo di ricerca, che io trovo della massima importanza.

Madness panel

In uno studio del 2018 Lei, insieme allo psicologo Andrea Celoria e all’Antropologa Elisa Rapisarda, ha analizzato l’evoluzione del concetto di realtà oggettiva in relazione ai condizionamenti e alle credenze culturali e alla patologizzazione di talune interpretazioni della realtà. Esiste, nella psichiatria moderna, un accordo su quando e come si possa definire patologico un convincimento o trattarlo come un sintomo e quando invece ciò che può apparire delirante dall’esterno di un certo contesto culturale sia da ritenersi non patologico all’interno della collettività che condivide determinati valori?

Guardi, sulla carta la psichiatria ufficiale è molto democratica e rispettosa delle differenze culturali. Facciamo un esempio a noi vicino e mi dica lei se questo esempio risponde alla domanda. Mettiamo caso che ad un’anziana signora di un piccolo paesino italiano, vedova da poco e in un momento di difficoltà economica, appaia la Madonna. Secondo la psichiatria ufficiale questa signora dovrebbe essere considerata sana, perché la sua credenza è culturalmente condivisa e dunque non è un sintomo. Uno psichiatra le offrirebbe magari un supporto psicologico comprendendo il momento di difficoltà della signora, ma difficilmente le prescriverebbe dei farmaci antipsicotici. Questo dovrebbe valere per tutte le culture, ma nella realtà le cose stanno diversamente. La psichiatria, come molte altre discipline, risente ancora di pesanti retaggi imperialisti ed etnocentrici. Per cui accade spesso che pazienti migranti vengano considerati psicotici quando non lo sono. Ad esempio un africano che creda di essere perseguitato dallo spirito degli antenati perché non ha compiuto i sacrifici rituali ha una probabilità molto più alta rispetto alla signora italiana di essere considerato folle, quando invece non lo è se la credenza sugli antenati è condivisa dal suo gruppo culturale.

Di fatto, rispetto agli europei, gli africani, in situazioni simili a quest’esempio, vengono supportati molto meno dal punto di vista psicologico, ricevono più prescrizioni di farmaci antipsicotici e diagnosi di disturbi mentali gravi. Quindi nella realtà per la diagnosi si usano due pesi due misure, implicitamente riaffermando la superiorità della nostra religione e della nostra civiltà sulle altre. Questo ha, come dicevo prima, l’effetto di mantenere una postura implicitamente imperialista e teocratica della nostra società, è come se senza accorgercene dicessimo: “siamo migliori degli altri popoli perché più potenti, e siamo più potenti perchè il nostro Dio è vero mentre il loro è falso”. Non sto paragonando tout court l’Italia agli stati confessionali, ma alcune eredità di quell’impostazione sopravvivono ancora nel nostro modo di pensare.

In questo senso la materia di cui mi occupo, la psichiatria culturale, può dare un contributo importante alla riflessione della nostra civiltà sui suoi stessi fondamenti, aiutandoci a decostruire alcuni presupposti nocivi che non sono cambiati poi tanto dall’epoca del colonialismo. “With God on our side” (“Con Dio dalla nostra parte”. NdR) non è un buon presupposto per incontrare e curare persone di culture altre e, aggiungerei, neanche per la salute mentale nostra.

In che modo lo spostamento di persone che condividono credenze e condizionamenti culturali diversi da quelli del luogo in cui vengono a trovarsi influenza le richieste che vengono avanzate alle strutture di assistenza psichiatrica e psicologica su un territorio? Penso ovviamente al caso di Trieste, ma anche alla traslabilità di questo concetto in una grande metropoli multiculturale come Berlino.

Per Berlino non saprei dire, spero di scoprirlo al “Madness” del Disruption Network Lab, che ringrazio per l’organizzazione e per avermi invitato. Spero che in Germania la situazione sia migliore. In Italia sono le credenze culturali della società italiana quelle che influenzano le richieste che arrivano ai Dipartimenti di Salute Mentale.

Le minoranze etniche nel nostro paese raramente hanno la forza per avanzare delle richieste autonome, quindi le richieste sono avanzate dalle parti sociali italiane che si rendono interpreti dei bisogni dei migranti (strutture d’accoglienza, di volontariato, forze dell’ordine, altri servizi pubblici). Sostanzialmente noi come psichiatri veniamo chiamati in causa su due cose: controllo sociale e supporto abitativo.

Mi sembrano istanze legate a stereotipi nostrani sui migranti: da una parte la tutela dell’ordine pubblico di fronte ad un “uomo nero” vissuto come minaccioso, dall’altra il migrante come un poverino che non sa badare a se stesso e a cui quindi bisogna fornire vitto e alloggio – a volte prima ancora di avergli chiesto che ne pensa. In qualche modo questo riflette una scissione del nostro immaginario politico? Poi, quando si inizia il colloquio con una o un cittadina/o migrante di solito si scopre che i suoi desideri, sofferenze e progetti sono molto diversi da quelli che avevamo immaginato. Questo è la proposta che intenderei sviluppare assieme al pubblico berlinese nel mio talk al panel “Decolonizing Psychiatry: mental health in conflict zones” all’interno del “Madness”.

Potremmo dire schematicamente che ci sono due aspetti culturali in salute mentale, quello legato alla cultura del paziente migrante e quello legato alla cultura della società ospitante. Molti si occupano del primo aspetto, io rispondo alle Sue domande puntando più sul secondo perché è quello meno sviluppato e su cui credo ci sia maggior necessità di ampliare la riflessione.

Quali dovrebbero essere, a suo modo di vedere, i principi ai quali la psichiatria dovrebbe informarsi, per poter operare effettivamente in aiuto e a vantaggio dell’individuo e favorire una cura reale della salute mentale del singolo?

Ah, Lei è gentile ma qui mi chiede un po’ troppo! Non mi allargherei su dichiarazioni così generali. Quello che posso dire per certo è questo: la cultura occidentale può nuocere alla salute mentale, cronicizzare la follia. Al momento, di fronte a questo dato la psichiatria generale si interroga molto poco. Dobbiamo affrontare questo punto, anche con l’aiuto di altre discipline. Non mi fraintenda: non sono assolutamente un antipsichiatra. Quando si sta male bisogna trovare aiuto: prima di tutto con la psicoterapia, col supporto sociale e infine se serve anche coi farmaci. Ma è importante distinguere le cause collettive – e la cultura può essere una concausa della sofferenza – e la cura dei singoli casi individuali.


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In un altro studio del 2020, scritto insieme all’antropologa Elisa Rapisarda e pubblicato dalla World Cultural Psychiatry Research Review, Lei si è occupato degli atti di terrorismo suicida da un punto di vista storico e, ovviamente, psichiatrico. Lo studio postulava che, se il terrorismo jihadista suicida si considera legato a questioni geopolitiche e culturali mediorientali, la modalità con cui questa violenza viene messa in atto e gestita in termini mediatici, trae la sua forma dalle dinamiche occidentali. In che modo, a Suo parere, le società occidentali e in particolare la psichiatria possono o dovrebbero intervenire, per scardinare le dinamiche che favoriscono, per mancanza di un termine più adatto, la fascinazione o l’attrazione che l’atto terrorista suicida esercita su chi lo commette?

Fascinazione mi pare un ottimo termine! Proviamo a prendere la cosa da un altro punto di vista. Nella mia professione, chi vuole curare bene gli altri deve prima fare una psicoterapia personale per sé stesso. Se ad esempio uno psichiatra ha delle difficoltà di rapporto coi suoi genitori dovrà prima riconoscerle e affrontarle, prima di aiutare i suoi pazienti su analoghe problematiche. Allo stesso modo immagino che la nostra società e la psichiatria debbano liberarsi dei propri pregiudizi implicitamente fondamentalisti prima di affrontare il fondamentalismo degli altri.

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Il Dr. Donato Zupin, ospite dell’evento “Madness” organizzato da Disruption Network Lab

Come nell’esempio della signora italiana e dell’uomo africano credo ci siano ancora nelle teorie e nelle pratiche psichiatriche degli atteggiamenti impregnati di imperialismo e implicita affermazione della nostra superiorità religiosa, a volte inconsci e a volte intenzionali. Quindi, per rispondere alla sua domanda penso che la psichiatria debba partecipare ad un’ampia riflessione assieme ad altre discipline come l’antropologia e la sociologia, una riflessione che coinvolga anche l’opinione pubblica, su come fare i conti con queste nostre eredità culturali. Lei ha ricordato alcuni articoli che abbiamo scritto su questo tema col gruppo della Rivista di Psichiatria e Psicoterapia Culturale: ecco, io inviterei gli scholars di tutte le discipline affini a dare un contributo in merito.

Questo vale per il livello della ricerca. Per tradurre questa ricerca in pratica clinica è possibile aiutare un essere umano a comprendere le dinamiche culturali inconsce che lo hanno intrappolato in un fondamentalismo che gli impedisce di sviluppare il suo potenziale creativo, quando c’è un rapporto di collaborazione e fiducia. Si può immaginare che siano condizioni rare. Ricordo un’esperienza del genere, con un neofascista che invece di agire la sua violenza nei confronti delle minoranze etniche ci chiese di poterla comprendere e cambiare. Per fare questo però servono personale, mezzi, formazione e risorse che al momento lo stato italiano non stanzia per i Dipartimenti di Salute Mentale, oltre che avere una collaborazione strettissima con le altre istituzioni pubbliche e la società civile. In quel caso oltre alla violenza xenofoba la persona in questione aveva anche varie pendenze legali, soffriva di disturbo psichiatrico, di una dipendenza da cocaina ed era momentaneamente disoccupato e senzatetto. Con un importante sforzo congiunto di più servizi pubblici e la disponibilità della persona all’autoriflessione quel caso è diventato affrontabile.

Quello che invece la psichiatria non può (e non deve) fare è agire come una sorta di polizia della mente rinchiudendo in maniera coatta chiunque esprima un’idea o una visione considerata pericolosa per la società. Il farmaco che guarisce la devianza sociale non esiste. La responsabilità di affrontare il machismo, gli imperialismi e le teocrazie è nostra come esseri umani prima ancora che come psichiatri e non ci è concesso abdicare a queste responsabilità sperando in miracoli della psicofarmacologia.

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