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Ray Wong: l’attivista di Hong Kong in un evento a Berlino, per parlare di tecnologia e resistenza

Ray Wong ha fondato il gruppo Hong Kong Indigenous ed è stato fra i principali promotori della protesta contro la legge sull’estradizione, che ha esacerbato fino al punto di rottura i rapporti fra Hong Kong e la Cina. In seguito al suo coinvolgimento nelle proteste, brutalmente represse dalla polizia di Hong Kong allineata al governo filo-cinese, Wong ha dovuto abbandonare il Paese ed è stato il primo attivista di Hong Kong a ottenere asilo politico in Europa. In occasione dell’evento Powers of Truth, organizzato dal Disruption Network Lab, sabato 2 ottobre alle 16.15, prenderà parte al panel “Voices, Tactics & Technologies to Challenge Dominant Narratives” per parlare di come il movimento contro la legge sull’estradizione, nel 2019 ha sorpreso il mondo non solo per la capacità di resistenza della popolazione di Hong Kong, ma anche per le tattiche innovative utilizzate dai manifestanti e per l’uso che questi hanno fatto della tecnologia. Lo abbiamo intervistato per capire cosa distingue il movimento per l’indipendenza di Hong Kong dagli altri movimenti anti-totalitari nel mondo e in che modo la tecnologia può diventare parte dell’attivismo.

Il movimento nato nel 2019 a Hong Kong per contrastare la legge sull’estradizione ha fatto scuole a ha sorpreso il mondo, non solo per la determinazione della gente di Hong Kong, ma anche per le tattiche di protesta innovative e l’uso della tecnologia. Quali sono state le principali innovazioni di questo movimento in tal senso?

Uno degli aspetti più innovativi del nostro movimento è che non ha un capo, è un movimento decentralizzato senza leader. In molti si chiedono come abbiano fatto i manifestanti a organizzarsi e la risposta sta proprio nella tecnologia. I manifestanti concentrati in diverse aree formavano vari gruppi telegram in cui parlavano delle azioni da intraprendere, decidevano dove si sarebbero incontrati, quali tattiche avrebbero usato cosa fare in caso di confronto con la polizia. In questi gruppi sperimentavamo l’elemento della democrazia, utilizzando le funzioni dell’app che permettono di votare. Se i manifestanti avevano una domanda proponevano idee diverse, era possibile lanciare un sondaggio e chiedere a tutta la comunità, per ottenere risposte da tutti. Anche i forum online sono stati un elemento tecnologico fondamentale per le proteste: i gruppi li usavano per discutere anonimamente di strategie, dal momento che la polizia di Hong Kong arrestava chiunque fosse percepito in modo esplicito come organizzatore o leader di una protesta.

Su un forum anonimo tutti sono al sicuro e possono esprimere qualsiasi opinione, anche le più radicali e violente. In questi gruppi c’è una sana cultura della discussione, che permette il dialogo fra il lato più moderato della protesta e quello più estremo. Credo che questo aspetto sia senza precedenti. Infine, per concludere il discorso sulle tattiche, molti manifestanti non scendevano in piazza, ma restavano a casa a monitorare la situazione: chi vedeva passare le forze di polizia avvertiva gli altri manifestanti su appositi gruppi segreti, così che si potesse aggiornare in tempo reale la mappa delle posizioni dei poliziotti e spostarsi altrove, seguendo il nostro motto che è “siate acqua”: ogni volta che arriva la polizia, i manifestanti si disperdono e continuano la protesta altrove.


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Non avete paura che ci siano infiltrazioni della polizia nei gruppi anonimi?

In questi contesti, ognuno è molto attento a non rivelare troppo della propria identità. Inoltre questo tipo di gruppo si evolve con ogni manifestazione. Prima di ogni protesta i manifestanti si incontrano e individuano i membri del nuovo gruppo Telegram: chi non è all’incontro per la manifestazione non fa parte del gruppo. All’inizio la polizia cercava di infiltrarsi, ma non potevano sempre mandare infiltrati in ognuno di questi piccoli gruppi, che continuavano a sciogliersi e a riformarsi. Quindi la protesta è continuata arrivando anche ad azioni più radicali, come attaccare le aziende filo-cinesi e la Banca Cinese. Tutte queste operazioni di disturbo erano organizzate da gruppi d’azione molto piccoli.

Qual è la strategia ideale per un movimento di protesta moderno che si scontra contro una superpotenza moderna?

Credo sia difficile definire una strategia univoca per i moderni movimenti di resistenza, perché dipende dal contesto di ogni Paese o città . A Hong Kong abbiamo la possibilità di usare la tecnologia in questo modo anche perché la nostra è una città relativamente benestante rispetto ad altre zone come la Thailandia, il Cile o la Birmania, ed è per questo che, per esempio, alcuni manifestanti potevano comprare ogni mese un telefono nuovo, per quanto economico, per nascondere la propria identità. Inoltre una buona parte della classe media di Hong Kong era ben felice di contribuire economicamente alla nostra causa. Ho parlato con gli attivisti di altri Paesi in cui non ci sono altrettante risorse per organizzare manifestazioni, comprare telefoni, comprare domini internet, avere esperti informatici che scrivano software apposta. Non posso generalizzare la nostra strategia per altri Paesi.

Tu hai fondato il gruppo Hong Kong Indigenous. Che cosa rende unica l’identità della gente di Honk Kong e quali aspetti di questo movimento vuoi trasmettere in occasione del tuo intervento a Powers of Truth?

Hong Kong Indigenous è diverso dagli altri partiti politici locali, perché pone l’enfasi sull’importanza della nostra identità. Questo perché abbiamo visto molti esempi, in Cina, di come il partito comunista al governo faccia pulizia etnica e culturale, riscrivendo la storia, opprimendo gruppi con lingue e culture diverse, per assimilare le minoranze, come gli Uiguri. Lo fanno con successo da anni e pianificano di farlo anche a Hong Kong. Noi crediamo che, prima di poter davvero lottare per la democrazia, dobbiamo preservare la nostra identità, altrimenti, se diventiamo cinesi o ci assimiliamo all’ideologia del partito comunista cinese, sarà stato tutto inutile. Perché quello che distingue la popolazione di Hong Kong sono i nostri valori, è il fatto che noi crediamo nella democrazia, nella democrazia vera, non quella che propaganda la Cina, crediamo nella libertà di parola, nei diritti umani, nello stato di diritto.

E visto che non abbiamo una costituzione scritta da noi, è la nostra identità a costituire l’incarnazione dei nostri valori. Preservando la prima, salvaguardiamo i secondi. Nel movimento contro la legge sull’estradizione lo abbiamo visto chiaramente. Molti manifestanti erano preoccupati soprattutto da quella legge specifica,ma dopo mesi di proteste ci siamo accorti che non era solo questione di indipendenza giudiziaria, ma di libertà, identità, che sono le cose che il governo cinese sta cercando attivamente di toglierci, per distruggere il nostro stile di vita. È stato a allora che molti di noi hanno iniziato a cantare slogan come “siamo Hong Konger, non siamo cinesi”, “Hong Kong resiste”: le politiche dell’identità sono diventate il cuore dell’intero movimento. Questa è la ragione per cui il mio partito crede che il fulcro della lotta consista nella preservazione dell’identità.

Ci tengo a far capire al pubblico, nella mia presentazione, i motivi per cui le nostre politiche identitarie sono così importanti per noi. So che in Europa, soprattutto in Germania, un certo tipo di politiche identitarie sono un tabù. Se sei troppo patriottico e troppo “fan” del tuo paese possono pensare che tu sia di destra, che tu sia un nazista, ma per noi non è la stessa cosa. Ci tengo solo sottolineare la differenza di contesto fra Hong Kong e i Paesi europei. Nessuno dei vostri Paesi vive la minaccia della cancellazione della propria identità da parte di un regime autoritario come capita a noi, a Taiwan, al Tibet e agli Uiguri..

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