Operazione Valchiria: l’attentato a Hitler che avrebbe potuto cambiare la storia

Il 20 luglio 1944, Claus Schenk Graf von Stauffenberg si recò con una valigetta alla Wolfsschanze (letteralmente “la tana del lupo”), quartier generale di Adolf Hitler nella foresta prussiana, oggi parte della Polonia. Lì stava per avere luogo, alla presenza dello stesso führer, una riunione dell’alto comando dell’esercito. Von Stauffenberg non si fermò molto e dopo qualche minuto uscì dalla stanza con una scusa, lasciando sul pavimento la valigetta. Quella valigetta esplose alle 12.42.
Quello fu il momento finale del piano ideato da una parte dell’esercito tedesco con lo scopo di uccidere Hitler, passato alla storia come “Complotto di luglio” ma anche come “Operazione Valchiria“.

Uccidere Hitler: un obiettivo di molti
Nel 1943 diversi erano stati gli attentati ad Hitler. Falliti per disguidi tecnici o evitati all’ultimo momento non andarono mai andati a buon fine, ma in compenso indussero il cancelliere tedesco a sospettare di chiunque, a mettere in atto manovre di costante depistaggio, come cambiare luoghi e tempi dei suoi spostamenti, e a dotarsi di 15 assaggiatrici.
Intanto la Germania procedeva verso il tracollo e nel 1944 registrò la fine dell’ormai triennale assedio di San Pietroburgo (all’epoca Leningrado), la liberazione di Roma dal nazifascismo e lo sbarco in Normandia, che fu l’inizio dell’epilogo. La guerra era persa, ma Hitler continuava a inseguire i suoi sogni di gloria su carine immaginarie. Non così invece una parte dell’alto comando tedesco: generali, colonnelli e maggiori dell’esercito tedesco tramavano infatti nell’ombra, per neutralizzare il führer.
Leggi anche:
Hitler e l’arte degenerata: storia della mostra più paradossale mai tenuta a Berlino
Operazione Valchiria: si pianifica l’azione
L’idea dell’attentato nacque nel settembre del 1943, durante un incontro avvenuto tra il feldmaresciallo Günther von Kluge, il generale a riposo Ludwig Beck, il dottor Carl Friedrich Goerdeler e il generale Olbricht. E si diffuse presto tra i dissidenti che si nascondevano in seno all’esercito.

L’operazione Valchiria aveva lo scopo di mobilitare l’esercito territoriale e rovesciare Hitler e il suo regime. Parallelamente all’eliminazione del dittatore avrebbero dovuto essere occupati i ministeri del governo di Berlino, il quartier generale di Hitler nella Prussia Orientale, le stazioni radio e le centrali telefoniche. L’operazione prevedeva inoltre la liberazione dei campi di concentramento.

La “non scelta” di Fromm e la distanza di Rommel
Per la sua articolata complessità, un piano del genere avrebbe potuto essere attuato solo dal generale Friedrich Fromm, comandante dell’esercito territoriale. Fromm dovette dunque scegliere se stare dalla parte dei cospiratori o essere arrestato insieme ai fedelissimi di Hitler, nel caso in cui il piano fosse riuscito. Scelse di non ostacolare il piano, ma condizionò la sua partecipazione attiva all’operazione Valchiria solo in caso di successo dell’attentato.
È da escludersi invece la partecipazione del Feldmaresciallo Erwin Rommel, che riteneva come gli altri che le cose in Germania dovessero cambiare, ma non era mai stato d’accordo con l’idea di uccidere Hitler rendendolo un martire.

Entra in scena von Stauffenberg
Quando fu contattato dai cospiratori, Claus Schenk Graf von Stauffenberg aveva appena superato un periodo di convalescenza, dopo aver perso in Tunisia la mano destra, due dita della mano sinistra e l’occhio sinistro, che copriva con una benda nera.
Nazionalista e conservatore, era anche molto cattolico, ragion per cui non aderì subito all’idea di ricorrere all’assassinio politico. Alla fine, però, si rese conto che uccidere Hitler era l’unica strada e si mise a disposizione non solo come organizzatore, ma anche come esecutore materiale del piano. L’idea era quella di eliminare Hitler dalla scena e instaurare un nuovo regime allo scopo di negoziare la pace con gli alleati che avanzavano da ovest, continuando a combattere i russi sul fronte orientale.

Gli attentati falliti dei giorni precedenti
Il 1º luglio 1944 Stauffenberg venne nominato dal generale Fromm capo di stato maggiore presso la sede dell’esercito territoriale e occupò dunque il complesso del Bendlerblock, nel centro di Berlino. Lo scopo della nomina era quello di permettere a von Stauffenberg di partecipare alle riunioni di Hitler ed essergli sempre abbastanza vicino da poter avere l’opportunità di ucciderlo.
Il 7, l’11 e il 15 luglio alcuni cospiratori tentarono di uccidere il dittatore, ma non furono assistiti dalla fortuna. Lo stesso von Stauffenberg ebbe l’opportunità di posizionare una valigetta di esplosivo nella Wolfsschanze, ma senza riuscirci. All’ultimo momento, infatti, Hitler fu chiamato fuori dalla stanza in cui sarebbe dovuta avvenire l’esplosione.

Il 20 luglio 1944: il giorno fatale
Il 20 luglio von Stauffenberg si recò nella Wolfsschanze per presentare a Hitler un rapporto sulle nuove divisioni create dalla milizia territoriale in vista dell’avanzata sovietica. In realtà aveva con sé una borsa che conteneva circa un chilogrammo di esplosivo al plastico da innescare attraverso un detonatore formato da una sottile molla di rame, che sarebbe stata progressivamente corrosa da un acido.

Un attentato iniziato male e finito peggio
Non pochi furono gli imprevisti. Intanto la riunione venne anticipata dalle 13.00 alle 12.30, rendendo necessaria un’accelerazione rocambolesca delle operazioni. Solo una delle due bombe, inoltre (un secondo chilo di esplosivo era nella borsa del tenente Werner von Haeften, che aveva accompagnato Stauffenberg) fu di fatto innescata.
Un secondo inconveniente fu il cambiamento improvviso del luogo della riunione. Von Stauffenberg riteneva che sarebbe stata tenuta in un bunker di cemento, che avrebbe di fatto amplificato l’esplosione, ma si tenne invece in un edificio di mattoni e legno. A causa del caldo, inoltre, tutte le finestre vennero tenute aperte e questo depotenziò di molto l’effetto della bomba. Von Stauffenberg chiese di poter essere messo vicino al führer a causa dei suoi problemi di udito, posizionò la borsa con la bomba e uscì dall’edificio sostenendo di dover fare una telefonata.
Infine, ci fu il terzo impedimento, che di fatto salvò la vita di Hitler. Uno dei militari presenti nella stanza spostò la valigia con il piede, allontanandola verso il lato più lontano del tavolo.

Il fallimento dell’Operazione Valchiria
L’esplosione uccise tre ufficiali e uno stenografo ma non Adolf Hitler, che riportò solo la perforazione del timpano destro e alcune lievi ferite. Von Stauffenberg aveva percorso 300 metri verso la sua auto, quando avvertì l’esplosione. Si recò all’aeroporto e prese un volo per Berlino, per ragguagliare gli altri sull’esito dell’operazione, che riteneva riuscita.

Le circa tre ore di latenza che intercorsero tra l’esplosione e l’arrivo di Stauffenberg e von Haeften a Berlino furono fatali ai cospiratori. Se avessero agito subito, infatti, avrebbero probabilmente potuto cercare in ogni caso di realizzare un colpo di stato approfittando della confusione. Il trascorrere del tempo, invece, diede modo al dittatore e ai suoi fedelissimi di riorganizzarsi, di intimorire l’esercito e di procedere alla repressione nel sangue della rivolta.

Preso atto del fallimento dell’attento e coerentemente con quanto aveva dichiarato, il generale Fromm non solo si rifiutò di supportare l’Operazione Valchiria, ma fece immediatamente arrestare e giustiziare tre cospiratori e lo stesso von Stauffenberg. L’esecuzione ebbe luogo nel cortile nel cortile del Bendlerblock, la sera stessa dell’attentato.

Oltre 5000 arresti e 200 esecuzioni
La manovra tuttavia non salvò il generale Fromm, che fu in seguito arrestato e giustiziato dai nazisti per negligenza. Nei mesi successivi ci furono invece oltre 5000 arresti di sostenitori, collaboratori e persino parenti dei congiurati. Le esecuzioni furono invece 200.
Coloro che avevano partecipato all’Operazione Valchiria e all’attentato a Hitler vennero processati dal cosiddetto Tribunale del popolo, presieduto dal famigerato Roland Fraser, definito “Il boia di Hitler”. Gli imputati furono costretti a sfilare in tribunale senza uniforme, con abiti fuori misura e senza cintura dei pantaloni, affinché fossero umiliati in pubblico. Com’era prevedibile, furono tutti condannati.

“Impiccati e appesi come bestiame al macello”
Hitler pretese che i congiurati fossero “impiccati e appesi come bestiame al macello“, cosa che avvenne con l’eccezione del generale Fromm, a cui commutò la pena dall’impiccagione alla fucilazione.
Le esecuzioni ebbero luogo nel carcere berlinese di Plötzensee, poche ore dopo la sentenza. Alcuni congiurati furono impiccati con cappi ricavati da corde di pianoforte e tutti furono appesi a ganci da macellaio. Le esecuzioni furono fotografate e filmate per circa quattro ore. Pare che alcuni dei militari che in seguito ebbero modo di rivedere il filmato insieme a Hitler si sentirono male, lasciando dunque la sala di proiezione.

La fine del feldmaresciallo Rommel
Nonostante l’estraneità materiale, fu costretto a suicidarsi per evitare lo scandalo anche Erwin Rommel, indicato come persona informata del golpe da uno dei congiurati, sotto tortura. Si suicidarono prima di essere giustiziati anche i generali Wagner e von Tresckow. Quest’ultimo dichiarò prima di morire: “Il mondo intero ora ci diffamerà, ma io sono ancora totalmente convinto che abbiamo fatto la cosa giusta. Hitler è l’acerrimo nemico non solo della Germania, ma del mondo intero”.
Von Stauffenberg, invece, un attimo prima di cadere sotto i colpi del plotone di esecuzione gridò: “Lunga vita alla sacra Germania!”.
P.S. Se questo articolo ti è piaciuto, segui Il Mitte su Facebook!