Dalla parte delle donne: Monica Carco’ e il suo impegno in Nord Africa e Medio Oriente

Monica Carco' in der italienischen Botschaft in Berlin. Alle Rechte bei Markus C. Hurek / www.mchurek.de
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Monica Carco in der italienischen Botschaft in Berlin. Alle Rechte bei Markus C. Hurek / www.mchurek.de

di Lucia Conti

Monica Carco’ è un funzionario internazionale delle Nazioni Unite, attualmente responsabile di un progetto dell’UNIDO teso allo sviluppo dell’imprenditoria femminile in sette Paesi africani.
Si divide tra Vienna, dove si trova la sede dell’organizzazione per la quale lavora, e Berlino, dove risiede suo marito, l’ambasciatore Pietro Benassi.
Proprio a Berlino l’ho incontrata e intervistata, all’interno dell’ambasciata d’Italia.

Circa due mesi fa è salita sul palco, a Francoforte, per dare voce a uno dei monologhi di “Ferite a morte”, avente a oggetto il tema della violenza sulle donne. Una questione ineludibile.

Sono stata invitata da Italia Altrove a partecipare a questa riduzione teatrale e ho subito aderito con grande piacere e anche con commozione.
Impossibile non partecipare a iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dei crimini contro le donne, che purtroppo ogni Paese conosce.
È una piaga a livello globale.

Vogliamo parlare di qualche cifra?

Più di un miliardo di donne, nel mondo, ha subito violenza fisica e sessuale e alcuni studi nazionali mostrano che il responsabile è il partner nel 70% dei casi, una percentuale altissima.
Se vogliamo parlare del nostro Paese, possiamo dire che, stando ai dati analizzati negli ultimi cinque anni, in Italia viene uccisa una donna ogni 60 ore. Impressionante.

In quanti modi si esprime la violenza contro le donne, nel mondo?

Ci sono moltissime forme di violenza. Il matrimonio precoce, ad esempio.
Quasi 750 milioni di donne, oggi, si sono sposate prima dei 18 anni, con conseguenti gravidanze precoci, interruzione dell’istruzione e isolamento sociale.
Almeno 200 milioni di donne hanno subito mutilazioni genitali e sono spesso le madri a farle praticare, temendo che le figlie possano non trovare marito.
C’è poi l’orrenda tratta degli esseri umani, dove le ragazze rappresentano il 71% del totale, mentre le femmine rappresentano quasi tre vittime su quattro dei bambini rapiti a scopo di sfruttamento sessuale.
E sono solo alcuni esempi.

Monica Carco in der italienischen Botschaft in Berlin. Alle Rechte bei Markus C. Hurek / www.mchurek.de

Sono cifre molto alte. In che modo si può intervenire e con quali mezzi?

Bisogna collaborare con governi, agenzie delle Nazioni Unite, organizzazioni della società civile. Vanno sensibilizzate le persone, le famiglie, i partner, gli insegnanti e l’intera società ed è importante rendere le donne sempre più consapevoli dei loro diritti.
A questo proposito trovo che il recente dibattito sui fenomeni di molestia sessuale abbia fatto maturare più avanzate forme di consapevolezza su un tema costantemente esposto al rischio di essere relativizzato e sminuito.
Solo così si può condurre con successo una battaglia per la parità reale.

Parliamo dell’Europa. Che volto ha la discriminazione alle nostre latitudini?

È innegabile che all’interno dell’UE le donne siano più protette che in molti altri Paesi del mondo. Tra le altre cose il principio di uguaglianza di genere è uno dei valori fondamentali dell’Unione ed è espressamente sancito nei nostri trattati.
Questo però non significa che per le donne non ci siano ancora innumerevoli ostacoli, che in Europa si esprimono molto sul piano lavorativo.
Le donne tendono infatti a essere impiegate meno, lavorano in media sei ore di più a settimana rispetto agli uomini, ma hanno paghe orarie inferiori e fanno più difficilmente carriera. Tutto questo a causa di problemi di costume e stereotipi che vanno combattuti con interventi mirati e, a volte, con qualche forzatura.

Quali sono le forzature alle quali si riferisce?

Le quote di genere, ad esempio. In Italia abbiamo una legge del 2012 sui CDA, che di fatto ha portato la presenza femminile all’interno dei consigli direttivi dell’amministrazione a superare il 30%.
Parliamo però di aziende pubbliche. L’impatto positivo registrato da leggi come questa andrebbe trasferito in altri ambiti del settore imprenditoriale privato, dove sussistono ancora gravi disuguaglianze.

Quali altri interventi legislativi sarebbero auspicabili, a suo avviso?

Una legge sulla paternità simile a quella che è stata adottata in alcuni Paesi del nord Europa, un’altra “forzatura necessaria” che però ha effettivamente modificato le dinamiche sociali. In Italia la legge sulla paternità prevede solo una settimana di congedo facoltativo. È chiaro che ha avuto un impatto quasi nullo sulla società.

Monica Carco in der italienischen Botschaft in Berlin. Alle Rechte bei Markus C. Hurek / www.mchurek.de

Ci sono state donne che si sono guadagnate posizioni di particolare rilievo, nel corso dell’ultimo anno?

Il 2018 è stato un anno estremamente positivo. A Stacey Cunningham, 43 anni, è stata affidata la guida del New York Stock Exchange e Fatma Samoura, 54 anni, è stata nominata segretario generale di Fifa, settore notoriamente monopolizzato dagli uomini.
Sono donne che hanno sfondato il cosiddetto glass ceiling, quella barriera invisibile ma solida che sbarra alle donne posizioni di potere e si infrange quando quelle che vanno avanti nella loro carriera lo sfondano, perché continuano a salire. Un’immagine bellissima.

Cosa possiamo dire, invece, per quanto riguarda la partecipazione delle donne alla vita politica?

In Europa la presenza di donne in parlamento va dal 20% al 40%.
Le percentuali più alte riguardano Svezia, Finlandia e Spagna, mentre scendono anche al di sotto del 20% in Croazia, Grecia, Lettonia e Ungheria.
In Italia siamo al 30%.
La situazione è ancora molto fluida. E decisamente migliorabile.

Parliamo più nel dettaglio del suo lavoro. Lei è responsabile di un progetto dell’UNIDO teso allo sviluppo dell’imprenditoria femminile in diversi Paesi del Nord Africa e Medio Oriente. Di che si tratta?

Il progetto si chiama “Promoting women empowerment for inclusive and sustainable industrial development” e i Paesi interessati sono Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Palestina, Giordania e Libano. La prima fase è stata avviata dal 2015 al 2018. La seconda fase dovrebbe iniziare a luglio e durare quattro anni.
Lo scopo è quello di investire nell’emancipazione economica delle donne, che contribuiscono enormemente all’economia dei loro Paesi ma sono spesso relegate nel cosiddetto “informale”, nel sommerso.

Quali strategie impiegate per cambiare le cose?

Cerchiamo di intervenire su più livelli per evitare che queste donne restino in una condizione senza sbocchi.
È un po’ il problema del tanto decantato microcredito, che in realtà, come ha detto più di qualcuno, è un modo per tenere le donne nella povertà. Se dai 5000 dollari a una donna per comprarsi una macchina da cucire, per fare un esempio estremamente concreto, quella donna resterà confinata in un ambito domestico.
Non è importante solo allocare risorse, ma bisogna fare in modo che servano a superare davvero le disuguaglianze.

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Che tipo di aiuto fornite, concretamente?

Cerchiamo di metterci a disposizione delle donne che hanno voglia di passare da una condizione di micro-impresa alla piccola impresa. Questo richiede più competenze, che cerchiamo di far acquisire con interventi mirati, e anche più prestiti bancari, e lì iniziano i problemi, perché le donne a volte non possono avere o non hanno beni e le banche non prestano soldi in assenza di garanzie. Lì interveniamo, cercando di favorire l’accesso al credito.

Immagino che a questo scopo sia fondamentale conoscere profondamente i contesti in cui si opera.

È assolutamente necessario, per capire in primis le cause della disuguaglianza.
Nel 2013 ho avuto modo di esaminare uno studio dell’OCSE sulle principali difficoltà incontrate dalle imprenditrici in Nord Africa e Medio Oriente e in particolare sul fatto che trovassero difficile “fare rete”, cioè costruire dei network capaci di facilitare l’accesso all’informazione, alle competenze e alla tecnologia.
Provare a favorire questo processo è stata una delle sfide che ho accettato negli ultimi 15 anni, quando ho cominciato a mettere in piedi un programma che avesse una prospettiva olistica.

Ci chiarisce meglio il concetto di “prospettiva olistica”?

Lo scopo finale è non solo fare in modo che le donne trovino un posto di lavoro, ma migliorare l’ecosistema imprenditoriale in senso globale, creando un circuito virtuoso che si rifletterà sulla famiglia e sull’intera società, con effetti positivi anche sull’istruzione, sul controllo della fertilità e sulla tutela della salute.
In questo senso ho voluto lavorare non solo sul piano economico, che è più tipico della mia agenzia, l’Unido, ma ho cercato di intensificare il dialogo politico con le istituzioni responsabili e con le banche. E ovviamente ho cercato di lavorare con le associazioni imprenditoriali femminili, sia per rafforzare la loro capacità di offrire servizi adeguati alle imprese, sia per stimolare una loro connessione a livello regionale.
A quel punto abbiamo cominciato a operare anche a livello internazionale.

In che modo?

Abbiamo organizzato dibattiti su temi rilevanti per le imprenditrici, ma anche vere e proprie conferenze d’affari.
Nel 2015 ho portato 100 donne proveniente dai 7 Paesi legati al progetto all’Expo Milano, dove abbiamo organizzato due giorni di partenariati da cui sono nate collaborazioni concrete.
Un’imprenditrice marocchina, ad esempio, ha acquisito un brevetto da un’azienda italiana per la vendita di un dispositivo per il filtraggio dell’aria in ambienti chiusi, e quindi per ridurre l’inquinamento indoor. Una donna palestinese, inoltre, ha iniziato a vendere i suoi gioielli a un importatore italiano.

Monica Carco in der italienischen Botschaft in Berlin. Alle Rechte bei Markus C. Hurek / www.mchurek.de

Immagino che questo crei un effetto positivo anche sui rapporti economici tra i Paesi coinvolti.

Esattamente. La regione del Nord Africa e del Medio Oriente, che pure è vicina all’Italia e importantissima per gli scambi europei, soffre molto a causa del bassissimo tasso di investimenti diretti stranieri. Il problema è che gli investitori vanno dove l’ambiente è sicuro, dove c’è stabilità politica, e tendenzialmente preferiscono regioni come l’Asia.
I partenariati d’affari internazionali hanno migliorato questa situazione, con un valore aggiunto rappresentato dal fatto che le donne siano in grado di creare non solo rapporti d’affari, ma anche di solidarietà.

Avete stabilito una connessione strategica con altre due agenzie delle Nazioni Unite, la FAO, che si occupa di sviluppo agro-industriale, e lo UNWOMEN, che si occupa di donne. Come vi state coordinando?

L’obiettivo delle Nazioni Unite è quello di massimizzare l’impatto dei progetti e per fare questo la collaborazione tra le agenzie è fortemente auspicata, anche dai governi che ricevono assistenza.
Noi che ci occupiamo di sviluppo industriale, per esempio, ci integriamo perfettamente con lo UNWOMEN, che attua politiche concrete per combattere la violenza e la discriminazione contro le donne e per aiutare i Paesi ad acquisire legislazioni più avanzate.
La FAO è invece specializzata nell’agroindustria e considerando che le donne delle regioni di cui parliamo sono principalmente occupate in agricoltura, in questo caso la priorità è migliorare la posizione delle donne lungo le filiere o fornire loro le competenze necessarie per passare dall’agricoltura primaria fino alla lavorazione, alle vendite e al marketing, dove interveniamo noi.

Possiamo parlare già di qualche risultato?

Finora i risultati del progetto hanno superato le aspettative degli obiettivi originali.
In Nord Africa il livello di istruzione è più alto rispetto al passato, la sanità è migliorata, è aumentato il controllo della fertilità e la mortalità infantile e delle donne in stato interessante è diminuita fortemente.
In tutta la regione supportiamo inoltre tutti i ministeri dell’industria che abbiano progetti specifici di sostegno all’emancipazione femminile, integrandoci nelle loro politiche. Non imponiamo nulla dall’alto.

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Mi piacerebbe chiudere questa intervista parlando di lei. Come è arrivata a svolgere l’attività di cui oggi si occupa e cosa ha imparato dalla sua stessa esperienza personale e professionale?

Dopo l’università ho maturato prestissimo la consapevolezza di essere un’idealista con forti principi universalistici.
Avevo voglia di lavorare in un ambiente internazionale e per il bene comune e questo mi ha spinta nella direzione professionale che ho poi scelto.
Il mio primo incarico da funzionario internazionale delle Nazioni Unite è stato in Tanzania, poi sono rientrata in Italia per un periodo e in seguito ho passato altri dodici anni tra la Giordania e la Tunisia.
Nel frattempo ho avuto una figlia, che è venuta con me in Giordania, e se guardo indietro mi rendo conto che il mio percorso non è stato lineare, né facile.
Mi sono messa in gioco più di una volta e in quei casi mi sono sentita dire spesso “Caspita! Una scelta coraggiosa!”. In realtà il motore che mi spingeva era il raggiungimento dello scopo in cui credevo: servire l’umanità.

Quando ha cominciato a interessarsi al tema dei diritti delle donne?

È nato tutto nel periodo del femminismo, durante l’università, quando il movimento per la vita voleva abrogare la legge sull’aborto con un referendum, nel 1981. Tra l’altro, quando mi sono in seguito occupata dello stesso tema a proposito delle donne del Nord Africa e del Medio Oriente, è stato come ritrovare quelle radici.
Ci fu poi l’ondata pacifista degli anni ’80, in seguito all’installazione a Comiso di 112 euromissili nucleari Cruise. Le pacifiste europee si organizzarono e io feci la mia tesi di laurea sulle attiviste di Grenham Common, con le quali passai più di un mese presso la base militare, in Gran Bretagna.
Mettere insieme tutto questo e la famiglia non è stato facile.

Quali difficoltà ha incontrato e come ha agito, per gestirle?

Ho dovuto fare dei compromessi e ho faticato molto per gestire tutto al meglio. Mi ha sempre accompagnata la raccomandazione di mia madre, che non lavorava e diceva sempre a noi figlie: “mi raccomando, lavorate, perché l’indipendenza è la cosa più importante, nella vita”.
E forse anche mia figlia ha imparato da me il valore del lavoro, oltre ad aver frequentato ambienti in cui si operava per contribuire a un futuro migliore per tutti.
Questo filo sottile ma robusto che lega le madri alle figlie mi ha dato molta forza, nei momenti di difficoltà.
E alle giovani donne che fanno internship da me dico sempre che bisogna seguire i propri sogni, perché è l’unica cosa che ti rende pienamente te stessa. Bisogna lottare fino in fondo per realizzarli, costi quel che costi.
Il coraggio viene da lì.