Come un film di Roman Polanski: visioni al Tempelhofer Feld

Photo by Löhrzeichen©
Tempelhofer Feld photo
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Nico pedala su una bicicletta troppo alta per il suo corpo da bambina. È sola su questo cavallo poco domabile, quasi un po’ scemo. Nel ventre porta con sé un temporale d’inquietudine, un fulmine sospeso. Sta cercando una persona tra le brezze calde del Tempelhofer Feld, avvolta da un’atmosfera non troppo dissimile da un film di Roman Polanski. Questa zona di Berlino può essere viva, come estraniante, a seconda di dove ci si reca.

Nico si trova all’estremo lato destro dell’antico aeroporto, è un’ora che si muove, che cerca. Le sembra ormai tutto un sogno, come se il tempo si fosse triplicato e lei fosse già una donna invecchiata. Le pare di avere dimenticato la ragione per cui è lì, i suoi piedi sono mossi più da uno stimolo automatico e dalla forza dell’abitudine che da un vero motivo. Nico sente di provare un’intima paura, vorace, se ci riflette un po’ più a lungo. Incomincia a urlare il nome della persona che cerca, ma i suoni si frammentano, come inghiottiti dalla velocità. Una lettera dopo l’altra non forma niente, certo non il ricordo di quel viso desiderato. Una lettera dopo l’altra svanisce nella propria materialità, perché anche il linguaggio, in fondo, non è che corpo. I pensieri, le frasi, mentali e verbalizzate, sono qualcosa che non sempre accade. Che non sempre è presente. Nico urla quel nome, ma non prova più nulla. Si lascia cullare dalla malinconia a cui non sa opporre resistenza. E su quella strada asfaltata tra campi biondi ed erbetta appena rasata, ha l’impressione di sentire un profumo famigliare: la crostata di sua madre. Questa sensazione così inattesa la fa ridere, per un secondo si distrae completamente, assorbita com’è dalla potenza di questo odore. La pasta imburrata è così sensibile, palpabile con i denti e le narici, non crede di avere allucinazioni. Eppure non sa nemmeno spiegarsi la stranezza di questo fatto nel bel mezzo del nulla. Nemmeno case vicine si lasciano scorgere all’orizzonte. L’idea di una presenza invisibile la spaventa. La crostata come il canto delle sirene e lei, Nico, questo Ulisse femmina in cerca di se stessa, attratta da qualcuno che nemmeno conosce, una sirena così conturbante e irrazionale.

Nico accelera, vuole di colpo sbarazzarsi di tutto ciò. Vuole il silenzio, il silenzio olfattivo, visivo, uditivo. Ma poco distante, su una panchina nera, quasi per ironia, siede un giovane. Lui abbraccia il suo sassofono e suona per sé, con occhi fissi nel vuoto: un tramonto rosa e verde di giugno. Nico non capisce se le due presenze tanto inusuali siano connesse tra di loro, la crostata di sua madre e questo musicista improvvisato. Ma la musica jazz di questo essere gentile la calma. “Chi fa jazz”, pensa lei un po’ ingenuamente “non mi può fare del male”. E rallenta l’andatura, quasi si ferma ad ascoltare più da vicino. Perché non ringraziarlo per questo regalo? Dopo tutto sorridere non costa nulla. Ma Nico non lo fa. Continua per la sua strada, rallegrata dal pensiero di crogiolarsi ancora un po’ in una ricerca che nemmeno alla fine del giro del parco troverà fine. La nostalgia. Un suono così dolce, ma arduo da digerire.