Kitaj, le ossessioni di un ebreo di maniera al Jüdisches Museum

di Vita Lo Russo

Mi avevano avvertita: la mostra di Ronald Brooks Kitaj, Obsessions, ti deluderà. Ma siamo a Berlino, al museo ebraico, Kitaj era uno scorpione, nato dalle parti di Cleveland da genitori in fuga dal nazismo. Anche il titolo della mostra mi aveva invogliato. E a conti fatti le sue opere dovrebbero essere una sintesi geniale di cultura, relazioni sociali, storia personale, ricerca artistica. Amico di Philip Roth, appassionato di Franz Kafka e Walter Benjamin, sociologo dell’olocausto, specialista di traumi da perdita delle radici, fuga e deportazione, scimmiottatore mal riuscito della sensualità delle donne di Picasso e Cezanne.

Gli ingredienti per un artista perfetto. Che però risulta freddo. Troppo pesante. Come molti di quelli che appartengono alla Jüdisches Art, un tipo di espressione che non può non prescindere dalla diaspora e dal genocidio.
Puoi essere colto quanto ti pare, con una buona mano, un curriculum della madonna e prima di morire incassi pure un Leone d’oro alla Biennale di Venezia (il Leone nel 1995, la tomba nel 2007). Ma se non smuovi le budella a chi guarda le tue cose non sarai mai una star. Sei solo un manierista.

Di tanta eruzione però qualcosa dobbiamo pur salvare. Come If Not Not (in apertura). L’edificio in alto a sinistra lo riconoscete: è l’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz. E tutto attorno cerca una via di fuga nella quiete dei paesaggi bucolici della pittura rinascimentale italiana. Il risultato è sconcertate: pecore smarrite, laghetti tetri, colonne di fumo, caldo dei forni, all’orizzonte.

Le sue prime opere erano dedicate all’attualità. Mi è sembrato un giornalista anche azicché la penna, nel taccuino ci metteva il pennello. Sicché ha cominciato a incollare frammenti di giornale sulle tele, poi a dipingere casi di cronaca nera americana, fino anche alla guerra in Vietnam. Tutte storie – immaginate tanti frame di un’unica Graphic novel concentrate in un solo quadro – impreziosite di dettagli letterari, poesie, umanità. Ha raccontato i viaggi di ebrei che pagavano il biglietto del treno per vedere i luoghi dell’olocausto, ha dipinto Mussolini appesso a testa in giù in piazzale Loreto, e indagato il franchismo catalano. Ha voluto dare un volto alla tristezza dell’ebreo che vive in una terra straniera e poi ha fatto lo stesso giochino con gli arabi che vivono a Londra (the Orientalist e the Arabist).

Ha tentato di descrivere la sensualità di una donna (The Sensualist), che è venuta fuori talmente tanto brutta che per consolarmi ho dovuto concentrarmi sulle femmine the Raise of Fascism (quella sinistra è la perseguitata, quella in mezzo la fascista e quella a destra gioca il ruolo della solita Svizzera, che sta in panciolle a guardare senza prendere posizione).

Nel 1973 ha dipinto due uomini di affari: uno con la mantella di Superman, all’altro la maschera di Batman. Si è scagliato contro la modernità che permette alle donne di fare copia e incolla della pelle del volto, la chirurgia plastica per intenderci, e in His new Freedom ha descritto il sorriso più raccapricciante che io ricordi nella storia dell’arte.

Solo la gigantografia (a seguire) che racconta l’oceano e di suo padre che passeggia sulla spiaggia con una sigaretta in mano, è riuscita a darmi un pochino di serenità.