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Realismo sintetico e violenza speculativa: intervista a Donatella della Ratta

La convergenza tra intelligenza artificiale e produzione visuale ha aperto scenari inediti che ridefiniscono i rapporti tra immagine, realtà e potere. Al centro di questa trasformazione si colloca una modalità di rappresentazione che prescinde dall’aderenza alla realtà empirica per costruire narrazioni visuali che influenzano la percezione collettiva del futuro. Ne abbiamo parlato con Donatella Della Ratta, che lo chiama “realismo sintetico”.

Della Ratta, Professoressa Associata di Comunicazione e Media Studies presso la John Cabot University di Roma, ha sviluppato una ricerca pionerisica su questi temi attraverso il progetto “Speculative Violence”. Durante la sua residenza presso il Disruption Network Institute (maggio-novembre 2025), Della Ratta approfondirà le implicazioni etiche, politiche ed estetiche di questi regimi visuali emergenti. Il 14 giugno, nel contesto della conferenza “SHADOWS OF ILLIBERALISM: Resisting the Radical Right”, terrà una lecture-performance dal titolo “ASK ME FOR THOSE UNBORN PROMISES THAT MAY SEEM UNLIKELY TO HAPPEN IN THE NATURAL (i biglietti sono disponibili qui).

Nella tua ricerca ricorrono due termini: “realismo sintetico” e “violenza speculativa”. Che cosa vogliono dire e come si inseriscono nella performance che poterai a Berlino?

Questa lecture performance è parte di una mia ricerca sull’intelligenza artificiale generativa e le nuove forme di violenza, in particolare quella che io chiamo violenza speculativa. Questa ricerca è stata finanziata dall’Italian Council, che è un bando del Ministero della Cultura italiana su i talenti italiani che si occupano di ricerca e sperimentazione artistica. Ho usato il grant ricevuto dal Ministero della Cultura per cominciare a studiare i modi in cui l’intelligenza artificiale generativa, attraverso delle immagini apparentemente innocenti, immagina dei futuri violenti.

Queste immagini sono fotorealistiche, verosimili anche dal punto di vista estetico e dunque danno luogo a qualcosa che io chiamo “realismo sintetico”, dal momento che le immagini generate dall’intelligenza artificiale vengono anche definite immagini di sintesi, “immagini sintetiche”, poiché non sono come le immagini fotografiche, che hanno un equivalente reale. Sono invece immagini sintetizzate dal computer, quindi non hanno un referente reale immediato, se non le immagini che sono state usate per addestrare l’intelligenza artificiale in quello che si chiama dataset. Dunque, secondo me queste immagini creano degli scenari non veri, ma plausibili.

Puoi farci un esempio di “realismo sintetico” violento?

Sicuramente la maggior parte di noi ha visto il video commissionato da Trump su Gaza, che presenta un immaginario realizzato dall’intelligenza artificiale, con lo scenario di una Gaza che viene completamente ripulita dalla fame, dalla distruzione, dalla morte e presenta l’immagine di quella che Trump chiama “riviera del Medio Oriente”. 

Questa immagine non è di per sé violenta, infatti passa la censura degli algoritmi di tutte le piattaforme social, eppure quello che c’è dietro è un atto violento, è un atto di deportazione, di pulizia etnica. Per dare luogo alla “Riviera del Medio Oriente” c’è bisogno di spostare forzatamente la popolazione palestinese oppure di ucciderla. Quindi, quello scenario apparentemente innocente e pacifico, con hotel sulla spiaggia e gente che balla e sorseggia cocktail, nasconde un’incredibile violenza. Questo è quello che io chiamo “violenza speculativa”. Si trova in tantissimi altri contesti, non solo quello di Gaza, ma, per quello che ho potuto rilevare nei miei studi, si tratta sempre di contesti di estrema destra, contesti illiberali. Il che si ricollega al tema della conferenza del Disruption Network Lab, “Shadows of Illiberalism”.

Che tipo di video di questo genere circolano nei contesti degli estremisti di destra?

Ci sono tanti video, generati dall’intelligenza artificiale, in cui gruppi razzisti dell’ estrema destra europea immaginano di ripulire etnicamente l’Europa dagli immigrati. Anche quelle sono forme di violenza speculativa. Secondo me la violenza speculativa va di pari passo con la violenza materiale, quindi non è una violenza soltanto digitale, priva di conseguenze. Sono due tipi di violenza che vanno a braccetto. Inoltre, la violenza speculativa, in una cultura estremamente visiva come la nostra, aiuta ad aprire gli occhi del subconscio. 

Su questo, la mia ricerca si richiama un concetto di Walter Benjamin che parla dell’inconscio ottico: è come se il visivo preparasse la strada all’accettazione, alla normalizzazione di scenari che, se venissero soltanto verbalizzati magari sarebbero rifiutati, mentre la componente visiva, in maniera silenziosa, riesce a farli accettare al subconscio.

Secondo te, perché questo particolare uso dell’intelligenza artificiale generativa ha attecchito soprattutto in ambienti della destra radicale e non in altri movimenti ideologici?

La sinistra, storicamente, ha una tradizione di maggiore aderenza al fattuale, alla documentazione, queste speculazioni su futuri possibili appartengono di meno alla tradizione di sinistra. C’è però un fatto storico molto importante che vorrei ricordare: gli attacchi terroristici alle torre gemelle del 11 settembre. Da quel momento in poi, l’amministrazione Bush e la successiva tradizione repubblicana in America, ha cominciato a mettere in atto una politica che è nota al mondo intero come “war on terror”, guerra al terrore. Parte di questa politica è anche un’idea che viene enunciata da un membro dell’amministrazione Bush nel 2004, poco dopo lo scandalo di Abu Ghraib, poco dopo che si era svelato che le armi di distruzione di massa che erano la scusa per rimuovere Saddam Hussein non sono mai state trovate e neppure esistevano. Un giornalista del New York Times, chiese ragione a un collaboratore di Bush, fra le altre cose, della menzogna che aveva dato origine alla guerra in Iraq, con la violenza e il caos che ne erano conseguiti in tutto il Medio Oriente. Questa persona gli rispose in maniera molto sfacciata:  “Noi siamo un impero e quando agiamo creiamo la nostra realtà. E mentre voi studiate quella realtà, con attenzione, come è giusto che sia, noi agiremo di nuovo, creando altre nuove realtà, che potrete studiare a vostra volta, ed è così che andranno le cose. Noi siamo gli attori della storia… e voi, tutti voi, potrete solo studiare ciò che facciamo.” (la citazione è stata in seguito attribuita a Karl Rove).

Questa frase del 2004, secondo me, nel 2025 è realtà, perché c’è anche un ecosistema mediatico che la rende possibile, ovvero l’intelligenza generativa. Questa è una fantasia molto di destra, molto di una destra illiberale, non appartiene alla tradizione di sinistra che invece è una tradizione molto più critica, fattuale. Certo, si potrebbero immaginare dei futuri non violenti usando l’intelligenza artificiale, ma credo che proprio uno dei problemi con i quali ci confrontiamo oggi sia la mancanza di immaginazione del futuro, di una proposta positiva sul futuro. Infatti la sinistra è in crisi praticamente ovunque.

Pensi che l’intelligenza artificiale generativa sia intrinsecamente orientata per avere un’influenza violenta sulla società o ritieni che ci siano prospettive di utilizzo che non vanno inevitabilmente verso questa deriva?

Questa è una domanda difficile, che forse non ha una sola risposta. Io penso che intrinsecamente ciò che è alla base dell’intelligenza artificiale o, meglio, del machine learning così come è concepito oggi sia un procedimento violento, perché è basato sul furto non autorizzato della conoscenza che milioni di utenti hanno messo su Internet, attraverso gli articoli che hanno scritto, ma anche i post che hanno fatto innocentemente sui social, le foto che hanno condiviso. Tutta questa conoscenza che, più o meno dalla metà degli anni 2000, viene condivisa innocentemente dalle persone per ragioni relazionali, è stata appropriata dalle società che si occupano di intelligenza artificiale e usata impropriamente, senza consenso, per addestrare queste intelligenze artificiali, per il machine learning, per insegnare alla macchina come vedere, come classificare. Questo procedimento, che è basato su un furto non consensuale, è un procedimento violento, per cui non può generare una cosa buona. Questo è ciò che c’è alla radice dell’intelligenza artificiale così come è stata sviluppata – e non vuol dire che non possa cambiare. Tutte le grosse società di intelligenza artificiale usano questo metodo, infatti ci sono tantissime cause in corso, soprattutto sul copyright, intentate non dagli utenti singoli che non hanno certo il potere di portare in tribunale Open AI, ma da grosse istituzioni tipo il New York Times, produttori di contenuti che sono infastiditi dal fatto che il loro contenuto sia stato depredato da queste società, che ci hanno guadagnato sopra.

Quindi l’intelligenza artificiale è violenta per il modo in cui si è sviluppata?

Il processo è intrinsecamente violento. Poi c’è anche il modo in cui l’intelligenza artificiale categorizza e classifica le cose, gli esseri umani e le loro caratteristiche fisiche, per esempio usando la biometria facciale. Anche questa è una procedura molto problematica, perché associa i concetti come facevano discipline tipo la frenologia (il classificare certi tratti, per esempio l’essere criminale, come associati a tratti somatici quali la forma della testa o la “razza”, secondo le teorie di Cesare Lombroso), che erano state invalidate nel secolo scorso in quanto pseudoscienze. Oggi, purtroppo, i procedimenti di classificazione e categorizzazione che stanno dietro l’intelligenza artificiale sono problematici, perché riprendono una serie di queste operazioni. Questa è la prima parte della risposta. La seconda è che, se pensassimo a un modo diverso di sviluppare l’intelligenza artificiale, sicuramente potrà non essere intrinsecamente violenta. Se però devo giudicare lo status quo, ahimè sì, l’IA è intrinsecamente violenta.

Parlando di contenuto depredato, mi viene in mente un’istanza in cui invece forse il “derubato” potrebbe avere la capacità di difendersi. Parlo di quella famosa immagine che fa riferimento alle deportazioni messe in atto dagli agenti dell’ICE statunitense (la polizia che, in tutti gli USA, sequestra le persone che si sospettano essere immigrati irregolari e li deporta senza processo) reinterpretandoli in stile Ghibli. Come giudichi un esempio del genere, specialmente in riferimento al forte contrasto di valori fra ciò che l’ICE rappresenta e quelli che invece caratterizzano le produzioni dello studio Ghibli. Può essere l’interruttore di una presa di coscienza o è una provocazione postmodernista svuotata di senso?

Questo è un caso molto interessante, che riporta proprio a universi giuridici, modi diversi di vedere la questione dell’allenamento dell’intelligenza artificiale.

Noi sappiamo che Miyazaki, il fondatore dello studio Ghibli è sempre stato profondamente antimilitarista. Chi conosce i suoi film sa che tutti i messaggi collegati allo stile Miyazaki, allo stile Ghibli, sono messaggi anti-guerra, antimilitaristi. Anche le immagini dell’IDF in Israele sono state fatte nello stesso modo: vengono rappresentati nell’atto di andare a bombardare Gaza in stile Ghibli. 

C’è una dichiarazione di vari anni fa in cui Miyazaki dice che appropriarsi di uno stile senza sposarne i contenuti è praticamente come depredare, togliere l’anima a quello stile, perché non si può scindere uno stile estetico dal contenuto politico che esprime.

Questa è una cosa che Miyazaki disse, se non sbaglio, nel 2017 già, quando i discorsi sull’intelligenza artificiale non erano così mainstream come sono oggi. Detto ciò, dal punto di vista legale, ci sono varie controversie sull’appropriazione di uno stile, soprattutto negli Stati Uniti. Gli avvocati che difendono queste società di intelligenza artificiale lo fanno dicendo che l’IA non copia i singoli film, i quali sono oggetto di copyright, ma ragiona sulla correlazione statistica. Tecnicamente, non copiano il film, non violiano il copyright, perché prendono spunto dello stile e poi ci fanno un’altra cosa. Ovviamente, io sto dalla parte di Miyazaki come persona, come studiosa, però non è una questione che è stata archiviata, i dibattiti sono aperti su questo argomento.

A questo punto mi chiedo, se anche fosse legalmente legittimo rappresentare l’ICE o l’IDF in studio Ghibli, secondo te, che cosa ci guadagnano le destre a rappresentarsi con uno stile legato a un universo di valori opposto al proprio e seguito da un pubblico che le odia?

Questa è una domanda alla quale non so rispondere. Ifilm studio Ghibli sono molto popolari, quindi l’estetica può essere, purtroppo, sganciata dal contenuto. Non so cosa ci guadagnino, però so solo che c’è stata una diffusione incredibile di quelle immagini.

Tu hai scelto di occuparti di questo nella tua ricerca: che ruolo ha la performance che metterai in atto il 14 giugno a Berlino in questo percorso? Quali sono gli scopi che desideri raggiungere?

La performance è un linguaggio, è una lecture performance, cioè è un saggio tradotto in maniera visiva e performativa. Quindi è un linguaggio che cerca di uscire dai termini accademici. È sicuramente un linguaggio che raggiunge più persone rispetto a un saggio accademico, ma è ancora naturalmente un linguaggio elitario, non è un linguaggio da grande pubblico.

Conta moltissimo il contesto in cui questa performance verrà fatta, che è la conferenza organizzata dal Disruption Network Lab, dove si parla proprio dell’ascesa di questi fenomeni di illiberalismo. Mi sembra dunque assolutamente calzante il discorso visivo e teorico che faccio attraverso questa performance. Lo scopo è andare oltre i formati più strettamente accademici e attraverso la dimensione visuale che, come dicevo prima, è fondamentale nella nostra cultura, molto più importante della parola scritta o parlata. In questa performance la parte visiva è preponderante. A realizzarla è stato un gruppo di Amsterdam, The Void. Proprio con la parte visiva vorrei cercare di far capire alle persone l’urgenza di questo tema, che si declina su tante realtà: su Gaza, su Trump, ma anche sulle nostre città dove c’è un pericolo molto serio, molto reale di razzismo e di violenza. Vorrei trasmettere l’urgenza di questo tema con un formato un pochino più accessibile e, appunto, meno accademico.

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