
Di antiziganismo, in Italia si è parlato di recente soprattutto in riferimento alla canzone Altalena Boy, di Lucio Corsi, che le comunità Sinti e Roma accusano di perpetuare stereotipi pericolosi. Questo tipo di discriminazione, tuttavia, è ben lungi dall’essere un problema soltanto italiano. Anche in Germania, infatti, i bambini Sinti e Rom continuano a subire discriminazioni sistematiche negli ambienti scolastici. Un recente rapporto del Centro di Informazione e Segnalazione sull’Antiziganismo (MIA) ha evidenziato come episodi di insulti, esclusione e atti di violenza siano ancora diffusi nelle scuole, negli asili e nelle università in Germania. Secondo i dati raccolti, dal 2023 sono stati documentati 484 episodi di discriminazione legati all’appartenenza etnica, un numero che, secondo gli esperti, rappresenta solo una minima parte dei casi reali.
Antiziganismo nelle scuole in Germania: cosa dice il rapporto MIA
Il documento racconta episodi come quello di un bambino sistematicamente aggredito e insultato con l’uso della “Z-word” (il termine ingiurioso più comune utilizzato contro le persone di etnia Sinti e Rom). Nonostante le segnalazioni dei genitori, la scuola ha minimizzato la vicenda, definendola una “cosa da bambini”. Questo esempio, riportato dal MIA, è indicativo di una realtà che, secondo Michelle Berger, responsabile di un centro di consulenza dell’Associazione dei Sinti e dei Rom tedeschi di Norimberga, rimane in gran parte sommersa: “Molte famiglie evitano di denunciare gli episodi per paura o rassegnazione”. Berger spiega in una dichiarazione a Tagesschau che, più degli insulti, ciò che preoccupa è la presenza radicata dell’antiziganismo nelle istituzioni educative. Il pregiudizio, afferma, si manifesta nelle scelte scolastiche che penalizzano i bambini Rom e Sinti, ad esempio indirizzandoli automaticamente verso scuole speciali o proponendo la ripetizione di anni scolastici senza che vi siano motivazioni pedagogiche fondate.
Secondo Berger, il problema non risiede soltanto in comportamenti esplicitamente discriminatori, ma anche nei pregiudizi inconsci di molti insegnanti: “Anche chi crede di agire per il bene dei bambini si muove spesso sulla base di stereotipi radicati da secoli nella nostra società”. A confermare questa analisi è Philipp Jugert, professore di psicologia interculturale all’Università di Duisburg-Essen. In uno studio sperimentale, Jugert ha presentato a futuri insegnanti dei profili scolastici di studenti privi di differenze nei risultati, ma con indicazioni sull’origine etnica. Il risultato è stato netto: bambini con un background migratorio, in particolare rom, venivano più frequentemente indirizzati verso scuole che offrono percorsi meno qualificanti come le Hauptschule, anziché verso i percorsi più qualificanti di Gymnasium o Realschule. Per intenderci, è una differenza in parte simile, anche se non identica, a quella che in Italia si percepisce fra i licei e gli istituti professionali.
Le proposte per un sistema educativo più inclusivo
Per contrastare questo meccanismo, il MIA propone l’adozione di figure di consulenti educativi in grado di garantire pari opportunità a tutti gli studenti e una maggiore rappresentanza di personale scolastico appartenente alle comunità Rom e Sinti. Anche il Ministero bavarese dell’Istruzione sostiene iniziative per una scuola più inclusiva, puntando sulla formazione specifica di insegnanti e psicologi.
Jugert, da parte sua, sottolinea l’importanza della formazione dei futuri insegnanti attraverso l’approccio dell’“insegnamento culturalmente reattivo”. Questo metodo mira a valorizzare la diversità culturale in classe, ma richiede che gli insegnanti riconoscano innanzitutto i propri pregiudizi: “Dobbiamo capire che tutti noi abbiamo stereotipi, non si tratta solo di identificare pochi razzisti dichiarati”.
Nonostante il quadro critico, il rapporto del MIA evidenzia anche segnali incoraggianti. Nell’ultimo anno è aumentato il numero di persone che intervengono a sostegno delle vittime di insulti e aggressioni e sono più frequenti le denunce, segno di una crescente consapevolezza. Michelle Berger sottolinea che più famiglie e studenti stanno trovando il coraggio di chiedere aiuto, segnale di un cambiamento culturale ancora fragile ma in atto.