Potrebbe piovere: Berlino, tassa sulla religione o scomunica

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di Riccardo Coradeschi

Tutto iniziò con la dichiarazione dei redditi. L’ultima busta paga è quella di novembre 2017, un magro salario per un esiguo monte ore, stroncato ancora una volta dall’ennesimo fallimento aziendale. Il secondo tentativo di impiego nelle startup è collassato ancora più velocemente del primo, dopo appena nove mesi. Un sospetto di malocchio si è ormai insinuato nella mia mente, ma lo combatto con uno spregiudicato atteggiamento da iettatore: non sarò soddisfatto finché i responsabili delle risorse umane di tutta Berlino non si presenteranno ad ogni mio colloquio con cospicue toccate di maroni. Possibilmente i loro, e non i miei. Ma questa è una storia diversa, senza turpi gesti apotropaici o perniciose sedi lavorative. Questa è una storia di religione, apostasia e perdizione.

Storia d’amore e burocrazia

Mi registrai come residente a Berlino nel lontano 2013. L’ansia da burocrazia tedesca era in quel caso acuita dal mio mostruoso ritardo nella registrazione, che avrei dovuto completare circa sette mesi prima. Dopotutto l’apparato statale tedesco è noto per la sua leggendaria flessibilità. Cosa potrebbe andare male?


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“Quando si è trasferito a Berlino?”
“Ehm… cinque giorni fa…”
L’impiegata mi fissa con una certa diffidenza, ma continua nelle sue domande di routine.
“Religione?”
“Ateo”
Il suo sguardo piccato mi fa sobbalzare.
“Lei è ateo?”
“Sì, c’è qualche…”
“Ma è stato battezzato?”
“Beh sì, ma…”
“Allora lei è cattolico.”

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Come un santino sul cruscotto

Le mie proteste a nulla valsero: un uomo in abito bianco mi spruzzò in testa dell’acqua magica quasi trent’anni fa, per lo stato tedesco tanto basta. Nonostante da anni non faccia mistero della mia assenza di fede, la cosa non mi disturbò oltre modo. La considerai una di quelle stranezze tedesche: apparentemente innocue ma con connotazioni vagamente inquietanti una volta analizzate da vicino.

Per anni il mio stato religioso è stato dunque quello di cattolico, una fede impostami burocraticamente ed in modo imparziale. Secondo lo stato tedesco ho avuto per cinque anni un santino di padre Pio sul cruscotto, una bottiglietta a forma di Madonna piena di acqua di Lourdes sulla credenza ed un rosario attorno al collo, ma fortunatamente nessun agente governativo ha mai svolto controlli approfonditi per verificare che il mio stile di vita rispettasse i dati forniti.

La tassa sulla religione

Cinque anni più tardi, per la prima volta, guardo davvero la dichiarazione dei redditi del 2017. I redditi non sono poi molti, con un lavoro part time durato nove mesi, ma quello che attira la mia attenzione è nella colonna degli addebiti, in piccolo, verso il fondo della pagina. Una cifra di poco superiore a 300 € era segnata come Kirchensteuer, “Imposta per le Chiese”.

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Il 9% dei miei guadagni era stato devoluto direttamente alla Chiesa Cattolica, per il privilegio di poter ricevere i sacramenti. Avendoli già fatti quasi tutti, e non avendo intenzione di farmi tumulare o prendere i voti nell’immediato futuro, la situazione mi sembrò quantomeno bizzarra. Anzi, da buon veneto mi avventurai in una squisita disputa teologica degna del miglior circolo bocciofilo della provincia di Padova.

In Germania questa è la regola: la Kirchensteuer si paga a prescindere dall’affiliazione religiosa, viene decisa al momento della registrazione ed è in definitiva una versione più rigida dell’otto per mille, senza una possibilità di dirigere quella donazione ad un ente diverso da quello in cui si è registrati. Secondo un articolo del Tagesspiel, solo nel 2015 la Chiesa Cattolica ha ricevuto 6,09 miliardi di euro da questa tassa.

Viva la burocrazia!

La ragione del mio sgomento, più che economica, è umana. Durante la mia vita, e specialmente a Berlino, ho incontrato uomini e donne che non si vedono riconosciuti i diritti basilari di ogni essere umano, perché la Chiesa ha dichiarato la loro natura un abominio. Sono stato testimone di cure negate a persone adulte e consapevoli, solo perché erano contrarie all’ortodossia cattolica. Una voce paternalistica, più che paterna, ha imposto un modello di pensiero che ritiene il singolo individuo incapace di capire cosa sia meglio per lui/lei. Dubito che l’assenza della mia tassa verrà notata, ma l’idea che i miei soldi vadano a finanziare anche solo uno di questi progetti mi riempie di malessere, e per quanto possa sembrare strano voglio ringraziare, per una volta, la burocrazia tedesca che mi ha spinto a prendere una posizione definita e chiara.

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La scomunica: unico modo di evitare la tassa sulla religione

L’unico modo per sottrarsi a questa tassa è infatti rinnegare la propria religione, ovvero la chiesa di appartenenza.
La rigida, prussiana organizzazione dello stato mi incasella in categorie precise, diligentemente annotate in colonne ordinate e catalogate: tedesco/straniero, lavoratore/disoccupato, ateo/credente. Quello che sembra un retaggio del passato assolutista acquisisce una funzione di speculum contemporaneo, spingendomi a definirmi per opposizione, costringendomi ad operare una scelta di fondo in una vita che ho cercato di mantenere sempre fluida, indefinita. La mia attitudine generale verso il mondo, il relativismo di cui mi sono sempre fregiato, tutto si infrange contro una situazione specifica che mi impone una scelta netta.

La Kirchenaustritt, l’atto ufficiale di uscita dalla Chiesa, purtroppo non richiede sacrifici di capretti, né ci sono sabba con danzatrici discinte o capri che suonano il mandolino. Non c’è nemmeno da firmare con il sangue. La burocrazia ha tolto ogni briciolo di teatralità al processo.
Un edificio che assomiglia vagamente ad Hogwarts (se Hogwarts fosse stata costruita nella DDR) accoglie una serie di ufficietti illuminati a neon e tinte beige. Con un paio di documenti, una marca da bollo e una mezz’ora di tempo si può diventare ufficialmente apostati. Da buon medievalista avrei preferito una scomunica ufficiale, ma temo sia necessario adattarsi ai tempi.

Berlino sarà anche povera e sexy, ma rappresenta qualcosa di più. Al di là delle periferie, della moda, delle startup, della realtà che non sta mai alla pari del mito, per tanti Berlino è una presa di posizione. Non è l’El Dorado mitteleuropeo e non è la meta delle grandi opportunità, non è la Mecca hipster, ma quello che può diventare è un punto di partenza. Per me, in questo caso, è stato un catalizzatore. Causa la mia natura qualunquista, le mie poche idee le ho sempre tenute private (il mio attivismo politico si è limitato ad affiggere dei poster dell’Italia dei Valori per la campagna elettorale del 2008). L’inflessibile burocrazia berlinese mi ha pungolato, smosso e finalmente costretto a riconoscere concretamente le mie convinzioni, e per questo non posso che esserle grato, mentre con timore rivolgo lo sguardo alla situazione italiana.

Mentre mi accingo a terminare questo articolo, il caso dimostra un senso dell’ironia di gran lunga superiore al mio: nella cassetta della posta trovo una lettera dell’Arcivescovo che mi augura una buona estate. Per qualche motivo immagino non pensi a Jesolo e gli spaghetti gelato.

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