Intervista ad Andrea Salvino, l’artista senza tabù

Un'opera Andrea Salvino
Un’opera Andrea Salvino

di Oriana Poeta

La prima volta che incrociai Andrea Salvino mi trovavo presso la Mondolibro in Torstraße, dove stavo per assistere alla presentazione di un libro. Entrò accompagnato da alcuni amici, sembrava molto indaffarato e rimasi incuriosita da quel suo modo di porsi con le altre persone. Ad una prima occhiata, Andrea non sembra rientrare in una di quelle semplici categorie professionali. Non sembra un avvocato, né un ristoratore. Andrea ha qualcosa d’alieno. Qualche settimana dopo lo ritrovo a Wolfsburg, proprio alla mostra degli ITaliens nel padiglione della Volkswagen, ed eccolo che si rivela proprio un “alieno italiano” (di cui scrivevo qui). Ne approfitto per rivolgergli qualche domanda, per chiedergli di mostrarmi altre sue opere. Andrea è gentile, ha un accento romano e mostra curiosità, interesse e disponibilità. É così che, in una vera giornata estiva, mi ritrovo nel suo atelier, poco distante da Potsdamer Platz. Arriva anche lui in bicicletta, come me, indossa pantaloncini corti, una maglietta gialla e ha quella vera aria d’artista. Ora ho capito veramente chi è.

Allora questa casa? L’hai comprata o no?
Si, l’ho comprata. Qualche ultimo lavoro da fare, un operaio da chiamare e sarà ultimata.

Quindi hai deciso di rimanere a Berlino? Perché?
Berlino è una città bella, comoda, piacevole. Costa poco, si vive bene e mi piace. Una di quelle città in cui ci sto volentieri. Ci sono alcune città, come Londra per esempio, in cui non resisto per più di una settimana. Mi irrita, dopo un po’ mi infastidisce. Berlino non mi fa questo effetto, anzi.

Berlino, la città ideale per un’artista?
Mi ci trovo bene, ma non è detto che ci starò per tutta la vita. Vivo qui da quattro anni, ma mi affascina anche la Francia, in particolare Parigi e la Provenza. Anche il Portogallo mi piace. Al momento Berlino è per me come la Tahiti di Gaugain. Qui mi diverto, come Gauguin si divertiva a Tahiti. Il lavoro per me non arriva da Berlino, come non arrivava da Tahiti per Gauguin.

E da dove arriva?
Da Londra (dice sorridendo), dall’Italia, dall’America, dal resto della Germania, ma non da Berlino.

Non pensi che a Berlino ci siano troppi artisti o persone che si definiscono tali, ma che forse non lo sono?
Con un amico qualche giorno fa discutevamo sul numero di gallerie presenti a Berlino. Secondo noi, ce ne sono più a Berlino che a New York, ma quelle che lavorano davvero sono solo una piccola fetta. Persone che si definiscono artisti? Si, ce ne sono e condivido. Ognuno di noi è libero di esprimere la propria creatività. Se un idraulico, un operaio o un qualsiasi professionista dopo il lavoro torna a casa e dipinge, qual è il problema? Ci si può considerare artisti. Poi ci sono quelli che lo fanno per professione, quelli che si affermano e quelli che non riescono, ma questa è un’altra storia.

Al Burian qualche giorno scriveva su Vice proprio della situazione artistica a Berlino e del paragone con New York. Sostiene che voi artisti, oltre a non sopportarvi tra di voi, non siete nemmeno ben visti dal resto della popolazione. Cosa ne pensi?
Non ha detto niente di nuovo. Un lettore comune, forse, non conosce i meccanismi del sistema dell’arte, ma per un addetto ai lavori nessuna novità. New York riveste un ruolo importante, come Parigi lo rivestiva in passato. Ora Parigi sembra tornare di moda, la Belle Époque sta tornando, ma Berlino resta comunque importante. Non bisogna dimenticare il ruolo della storia. La storia di Berlino è particolare e si riflette, certamente, anche nel mondo dell’arte. Berlino, con la Repubblica di Weimar, era alla stessa stregua di Parigi. La Berlino degli ultimi decenni, non del 2012, è stata una seconda Repubblica di Weimar. Il muro, la caduta e l’unione della città sono tutte fasi storiche che hanno, certamente, influenzato il mondo artistico. New York? É sempre stata diversa da Berlino, come lo è Londra. I giochi e i meccanismi sono gestiti dagli inglesi e dagli americani. Subito dopo vengono tedeschi, francesi, belgi e italiani. Da italiano, o meglio, da artista, in questa città non mi sento per niente odiato, né dai miei colleghi, né dal resto della popolazione. Personalmente non ho mai avuto nessuna esperienza negativa.

Andrea Salvino

Ti presenti come artista? Come ti definisci?
Si, un artista, un pittore.

Sei sempre stato un artista? Da quando l’arte ti ha offerto un vero e proprio lavoro?
Ho iniziato diciotto anni fa. Non pensavo ci sarebbe stato uno sviluppo. Facevo politica prima e militavo nell’estrema sinistra. Ho iniziato a disegnare, a dipingere per gioco. Era una scommessa strana, ho sempre pensato che ogni quadro che avrei venduto sarebbe stato l’ultimo, ma se lo faccio da diciotto anni evidentemente non è più un gioco. Del gioco ho imparato le regole, ho imparato a moderare la presunzione giovanile, ad affrontare le vittorie e le delusioni. Per essere artisti, a mio parere, ci vuole determinazione e… una serie di coincidenze, un po’ di fortuna, il mix giusto per riuscire in questo mestiere. Il pubblico decide se sei bravo e vale la pena investire nel tuo lavoro.

Evidentemente lo sei, visto che vendi da diciotto anni. Nei tuoi quadri e nei tuoi disegni noto sempre riferimenti a vicende storiche e sociali. Tratti tematiche presenti e passate che si rivelano universali e, quindi, sempre valide. Non credi che la tua esperienza politica abbia una grossa influenza sul tuo lavoro?
Si, certo. La mia passione per la storia prevale, ma lo faccio con un occhio indagatore e diverso. Come posso farti capire? (Pensa, riflette e non smette di arrotolare il tabacco nelle sue cartine). Immagina una pagina della nostra storia, magari una vicenda che conoscono tutti. Bene, io non voglio raccontare quello che già tutti sanno. Mi piace indagare e scoprire quelle particolarità, quegli aneddoti legati a quella stessa pagina storica. Mi diverte rivelare quelle cose non dette, le sfaccettature. Il soggetto del quadro a cui sto lavorando ora l’ho ripreso da una foto che potrai tranquillamente vedere nella Topografia del Terrore. Di quella foto mi piace lo sfondo storico, l’unione della vita con la morte. Rappresenta persone che si divertono al lago, ma sulla spiaggia c’è una croce con gli elmetti della guerra. Il piacere della vita s’incontra con la morte. A Wolfsburg prevaleva il tema dell’emigrazione, ma per realizzare i miei disegni non ho letto le classiche pagine storiche, c’è stato un libro, in particolare, che mi ha colpito: Radio Colonia racconta piccole vicende, vita quotidiana, che non penso tutti conoscano.

Mi piacerebbe approfondire, ma noto altri disegni. Il tema erotico è molto presente.
Si. L’erotismo e la pornografia sono presenti, com’è presente tutto ciò che viene considerato tabù. Per me non esistono tabù e apprezzo la Berlino di oggi, come la Berlino del passato. (Mi indica una tela, c’è disegnata una donna con il sedere scoperto, in un parco di Berlino) Pensi che il Kit Kat (locale osé della Berlino moderna) sia così strano? Quello che succede al Kit Kat succedeva tempo fa e non in un locale chiuso.

Quando osservo i tuoi disegni c’è qualcosa che mi attrae, che mi suscita curiosità e riflessione.
Si, ma vedi non tutti possono avere la tua reazione. Per ogni mio quadro c’è sempre un senso d’attrazione o repulsione: voglio comunicare un messaggio preciso.

Il titolo di un’opera aiuta a comunicare questo messaggio?
Il titolo nasce come un’intuizione, un sentimento legato al momento. C’è una stretta connessione con il lavoro, ma non sempre è meditato. Nasce così.

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