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Convivere con la sindrome di Usher. Intervista a Dario Sorgato, autore di “Guarda dove cammini”

Sabato 15 novembre, presso AWO-Begegnungszentrum (Adalbertstrasse 23A), Dario Sorgato presenterà il suo libro “Guarda dove cammini“. Nella stessa circostanza verrà presentato il documentario “NoisyVision – Il cammino inclusivo da Lecco a Milano”, di Glauco Tortoreto.

Nel suo libro Dario, un designer con la sindrome di Usher con la passione per i viaggi e le sfide sportive, invita a ripensare il cammino non solo come esperienza personale, ma come spazio di ascolto, incontro e crescita condivisa. Nel docufilm viene invece raccontata l’esperienza di tredici ragazze e ragazzi, alcuni con disabilità sensoriali, che insieme a Dario hanno percorso il sentiero di Leonardo da Lecco a Milano.

L’evento è organizzato da Artemisia e. V., associazione attiva nel campo dell’inclusione e da NoisyVision, associazione fondata da Dario Sorgato per promuovere i cammini inclusivi con disabilità sensoriali, con il patrocinio del Comites di Berlino. 

Di seguito l´intervista a Dario Sorgato di Valeria Reghenzani, socia e membro del direttivo di Artemisia.

Per chi non ti conoscesse, potresti spiegarci in che cosa consiste la Sindrome di Usher e, soprattutto, come essa influisce concretamente sulla tua percezione del mondo e sulla tua vita quotidiana?

La Sindrome di Usher è una malattia genetica rara che causa sordocecità per la combinazione di due problemi: sordità congenita (presente dalla nascita), gestita con apparecchi acustici e retinite pigmentosa (RP), una degenerazione della retina che porta a una perdita progressiva della vista.

L’impatto si riassume nella difficoltà sensoriale doppia. La RP restringe gradualmente il campo visivo in una “visione a tunnel”, rendendo impossibile vedere lateralmente o in condizioni di scarsa luce (cecità notturna). Si vedono solo frammenti al centro. L’udito è limitato (anche con ausili), complicando la comprensione del parlato in ambienti rumorosi.

Concretamente, questo comporta difficoltà a orientarsi, specialmente in luoghi nuovi o di notte. Devo fare grande affidamento sulla memoria spaziale e su eventuali accompagnatori. Ogni interazione richiede un grande sforzo di concentrazione per compensare sia la vista che l’udito limitati.

Il titolo del tuo libro,” Guarda dove cammini”, è potentissimo e sembra avere un doppio livello di lettura: uno molto pratico e uno profondamente metaforico. Cosa rappresenta per te questa frase e perché l’hai scelta come faro del tuo racconto?

Come si legge in quarta di copertina : “Guarda dove cammini” significa fai attenzione. Lo dice chi cammina al fianco di chi non vede. “Guarda dove cammini” è anche un’esclamazione. Guarda. Stupisciti. 

Ecco, sta qui la ragione di questa scelta, perché tutto il senso di quello che faccio è un invito a guardare con stupore. Per farlo ci vogliono le percezioni di tutti i sensi. Così come per camminare potrebbe non essere necessario vedere, se si cammina insieme.

Berlino, da te definita la “città della libertà”, è stato il palcoscenico di una tua importante presa di coscienza: quella di smettere di nascondere i tuoi apparecchi acustici. Ricordi un episodio o una sensazione precisa che ha fatto scattare in te questa decisione così liberatoria?

Gli apparecchi acustici sono l’unico elemento visibile della mia disabilità. Ora uso anche il bastone bianco, che è universalmente riconosciuto come il bastone di chi non vede. Ma quindici anni fa non lo usavo mai.

Credo che l’episodio della svolta sia stato il fatto che avevo messo gli apparecchi nelle tasche di una giacca di pelle che mi è stata rubata in un club.

A quel punto, dovevo necessariamente intraprendere quel lungo e stressante processo di scelta dei nuovi apparecchi, che sarebbero stati comunque più performanti di quelli vecchi che avevo perso.

A quel punto, anche l’aspetto moderno dei nuovi dispositivi mi ha facilitato il superamento della barriera estetica di quegli oggetti antiestetici come corpi estranei all’idea di come volevo apparire.

Il viaggio che racconti è anche, e forse soprattutto, un viaggio interiore. In questo percorso di accettazione e scoperta di te, qual è stata la tappa che hai vissuto come la più faticosa o ardua, e cosa ti ha lasciato?

A rinunciare alle ruote. Prima le quattro ruote dell’auto. Poi le due ruote della bici. Questi mezzi di trasporto sono l’emblema della mobilità indipendente. Questo mi manca molto.

Rinunciare a pezzi di indipendenza e autonomia è molto faticoso e mi ha lasciato la consapevolezza che non posso fare altro che trovare strade alternative e, per certi aspetti, accettare di essere un individuo in costante cambiamento. Come tutti, del resto, ma i miei cambiamenti spesso non sono delle scelte.

Partendo dalla tua esperienza personale, qual è, secondo te, l’ostacolo principale – che sia culturale, strutturale o di comunicazione – che ancora impedisce alla nostra società di essere veramente inclusiva verso le persone con disabilità?

Partendo dalla mia esperienza con la Sindrome di Usher, l’ostacolo principale che impedisce alla società di essere veramente inclusiva non è strutturale, ma culturale, e risiede nella mancanza di immaginazione empatica.

Le strutture fisiche si possono correggere con investimenti e leggi. L’ostacolo più grande e persistente è l’inerzia mentale: la pigrizia nell’immaginare soluzioni alternative e la convinzione inconscia che l’inclusione sia un favore da concedere, e non la semplice premessa necessaria per una società equa. Finché non superiamo questa visione limitata, ogni passo avanti nell’accessibilità rimarrà solo una toppa.

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