Victoria, la vita e la morte nella notte berlinese

Victoria
© Senator

di Emilio Tamburini

Nel ventre di uno dei tanti club della notte berlinese, dal pulsare delle luci stroboscopiche emerge una figura femminile (Laia Costa). Potrebbe avere poco più di vent’anni, è sola, si diverte, ancora ballando lascia la pista fino al bancone, dove scambia due parole con il barista che abbonda nel versarle uno shot di vodka, l’inquadratura la segue. Lo farà sempre, allontanandosi solo per indugiare su quelli che diventeranno i compagni della sua notte raminga e fuggitiva, lanciata all’impazzata per le vie di Berlino. E’ spagnola, vive lì da tre mesi ma non parla tedesco, si chiama Victoria e il suo nome è anche il titolo dell’ultimo film di Sebastian Schipper, presentato alla Berlinale ed ora nelle sale, nel quale non ci sono stacchi, né il montaggio digitale e le velocizzazioni a cui è recentemente ricorso un film molto diverso come Birdman, in cui la simile scelta di regia risulta, però, assai meno incarnata nella necessità e nell’anima dell’opera.

Per la durata di centoquaranta minuti di riprese ininterrotte di camera a spalla, Victoria riesce, non solo a evitare ogni autocompiacimento per l’audacia del tentativo, ma a rendere trasparente la pur ingombrante onnipresenza del cameraman norvegese Sturla Brandth Grøvlen, premiato con l’orso d’argento all’ultima Berlinale per questa prestazione. Se essa si rivela notevole per gusto e precisione, la si ipotizza quasi eroica anche dal punto di vista fisico e nervoso dato che numerosi dialoghi sono improvvisati e la sceneggiatura, risultato di cinque anni di lavoro secondo quanto dichiarato da Schipper. Prevede, tra l’altro, l’inerpicarsi su un tetto, repentine e reiterate fughe a piedi e in auto nonché una grande varietà di spostamenti tra interni ed esterni.
Uscendo dal club, Victoria sale sulla sua bicicletta per tornare verso casa, quando viene abbordata da un gruppo di giovani berlinesi i quali, in stato di un’allegra ubriachezza – non abbastanza molesta da spaventarla – le bloccano la strada e si presentano con i nomi di Sonne, Fuss, Blinka e Boxer. Il primo di questi (Frederick Lau) va in cerca delle sue risate e della sua attenzione, è lui a convincerla a non andarsene ancora: “Come, I’ll show you our world”.

E il loro mondo è quello di “echte Berliner”, nati e cresciuti insieme nello stesso Kiez, appartenenti a una classe povera e abituati a sfiorare con disinvoltura il confine della criminalità – anche se tra loro solo Boxer è stato in galera – come lui stesso le racconta con contrizione nel suo inglese reso ancora più approssimativo da un’irresistibile zeppola. Una conseguenza di questa macchia nel suo passato chiamerà lui e i suoi amici, mossi dalla sacra fedeltà di fratelli di strada, a un dovere comune. Da quel varco arriverà la bufera che trasformerà l’innocua incoscienza di una guerra dei bottoni in un gioco di vita o di morte. Victoria avrà diverse possibilità di chiamarsene fuori, di tornare al bio-Laden dove lavora e che dovrebbe aprire al mattino ed è lì che, prima che tutto cominci, Sonne le chiede di guidare l’auto per loro al posto di Fuss, che vediamo vomitare sul pavimento del locale senza che lei batta ciglio. Victoria accetta di seguirli con la stessa ferma ingenuità con la quale li ha lasciati entrare nel locale chiuso, anche se tirarsi indietro sarebbe l’unica decisione sensata e lo spettatore coinvolto la pregherà più volte, senza successo, di prenderla.
Il film non spreca la quiete che precede la tempesta e nel primo quarto d’ora i personaggi regalano dei dialoghi che hanno del miracoloso per la loro genuinità, quasi documentaristica nel riportare la realtà di tante serate berlinesi di incontri casuali, di un parlare che mischia inglese e tedesco per dire nulla o per raccontarsi un po’, quelle serate che sono fatte anche di cliché che il film non tenta di evitare.

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© Senator

Victoria si presenta come una delle tante o dei tanti, una di noi. Nel suo progressivo “braking bad” non c’è alcuna enfasi, non viene forzato dall’esterno così come non ne viene apertamente rivelata la ragione e seppure c’è un rito d’iniziazione, questo avviene in sordina, attraverso il divertito furto di un pacchetto di pistacchi davanti al proprietario dormiente di uno späti. Allora viene spontaneo chiedersi cosa si celi dietro quel volto pulito, quale meccanismo debba scattare in lei se né la noia, il fascino della trasgressione o il gusto del brivido che dimostra di avere, né la solidarietà nei confronti dei suoi nuovi amici, sono una giustificazione sufficiente per ciò a cui accetta poi di andare incontro.

Sorge il dubbio che ci sia qualche incongruenza nel personaggio di Victoria che, con troppa sicurezza o con troppa ingenuità, si lascia scivolare verso il ruolo di un’eroina talmente anarchica da esserne inconsapevole, mentre in lei ci innamoriamo un po’ di una solitaria cowgirl della metropoli.

Ma ogni film può permettersi di non dire nella misura in cui sa mostrare, e Victoria lo fa muovendo nello spazio dei personaggi a cui si crede, lasciando intatto il tempo in cui noi li percepiamo.

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Certo, qualche incongruenza c’è, se non altro in superficie, ad esempio nel fatto che dopo tre mesi che fa la barista a Berlino la bella Victoria sostenga di non aver conosciuto nessuno, o che i giovani berlinesi sembrino solo a tratti sprovveduti ben oltre quanto si possa concedere a dei teppisti ubriachi, anche ammettendo abbiano visto pochi polizieschi in vita loro. Cose che si perdonano volentieri a un cinema che conquista un’imperfetta grazia nel momento in cui sceglie di rischiare. E per tornare al personaggio di lei e a una verosimile lettura del suo agire, che rimane peraltro coerente durante tutto il film, limitandosi ad alzarsi di temperatura all’incalzare degli eventi, quella più plausibile è forse suggerita da una scena in cui lei suona al pianoforte del bar alcune battute del Mephisto Waltz di Franz Liszt davanti all’incredulo Sonne. Comunque sia, a prescindere dal fatto che il riferimento di Victoria al motivo faustiano sia da leggere come una strizzata d’occhio o come una dichiarazione di intenti, possiamo solo prendere atto che un film che riesce a far rivivere in due ragazzi allo sbaraglio la magia di Bonnie e Clyde, a farci emozionare davanti a scene e dinamiche abusate e inflazionate, ottiene la nostra riconoscenza e merita un posto di rilievo nel cinema tedesco che da anni non portava nelle sale il condiviso entusiasmo che certo Victoria saprà guadagnare.