The Visual House: Il Sigfrido di Tarantino. Django e il rapporto tra musica e immagini

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di Andrea Corona

Django è uno di qui film che non è possibile vedere una sola volta. Quentin Tarantino può creare dipendenza o repulsione, dipende dai casi e dalle sensibilità, e spesso i due stati coincidono nella stessa persona e nello stesso istante. Una delle ragioni per cui si dovrebbe guardare questa pellicola più di una volta è proprio per potersi assaporare le scelte musicali del regista in relazione alle immagini. Django è uno di quei film che, da un punto di vista formale, si può definire “jukebox”, cioè non è un film in cui si possa parlare di una singola colonna sonora dedicata e composta ex-novo. Django offre un potpourri di scelte e stili musicali estremamente diversi tra loro. Scelte abilmente associate dal regista ad immagini apparentemente contraddittorie con l’ambiente sonoro evocato dalle musiche. Tarantino non è nuovo a questo tipo di scelte strutturali per i suoi film. Già in Inglorious Bastards mixa immagini crude e forti a musiche in evidente opposizione emozionale. In Django il suo gusto e le sue preferenze musicali si rovesciano nelle immagini con la forza di una tempesta ed i sapori collidono, creando deflagrazioni che lasciano a dir poco stupiti e meravigliati: stupiti per il coraggio e meravigliati perché, in fin dei conti, funzionano e sono funzionali al discorso narrativo.

Una scena celebre del film è quella conosciuta come la “scena dei cappucci”. È notte, ed un manipolo nutrito di sudisti, bifolchi e razzisti, decide di dare la caccia a Django (Jamie Foxx) per linciarlo: nero che ha osato esserlo in un mondo bianco. Il gruppo a cavallo con tanto di fiaccole parte alla carica, minaccioso e risoluto, per dare una lezione a questo nero così diverso. È una scena imponente e rigida che, in un qualunque altro film, preluderebbe ad una imminente tragedia. Ma con Tarantino l’ovvio è escluso per legge divina. La carica è accompagnata dal Dies Irae di Giuseppe Verdi, che conferisce alle immagini severità e serietà. Abilmente la musica inizia subito dopo il rumore crescente degli zoccoli di molti cavalli al galoppo come una sorta di “pre musica” mai scritta da Verdi (e magari avrebbe dovuto pensarci, chi lo potrà mai sapere?). Inutile sottolineare che la successione delle inquadrature accompagna ed interpreta la musica, seguendone i diversi “battere” musicali. Il battaglione improvvisato di sudisti assettati del sangue rosso del nero impudente, giungono al carro e ci si aspetta un linciaggio sanguinolento, alla Tarantino: niente di tutto ciò. Segue uno stacco improvviso alla scena precedente dei cappucci. Qui parte un dialogo grottesco e squilibrato sulla necessità di usare, oppure no, dei cappucci fatti in casa con delle federe di cuscino, dalla volenterosa moglie di uno dei bifolchi. Il dialogo risulta ridicolo sin da subito e l’evidente idiozia dei partecipanti rende persino divertente la dissertazione “pseudo-filosofica”. Dal punto di vista musicale, si sarebbe potuti intervenire in molti modi. Era possibile scegliere una musica per contrasto “ridicola”, magari un 3\4 come un valzer, per sottolineare la stupidità di questi cafoni involuti, vittime del loro stesso ridicolo. Una musica incalzante di soli archi avrebbe invece caricato di tensione la scena e reso un contrasto ancora più forte con i dialoghi. Tarantino decide per il nulla. Niente musica. Il dialogo è così “forte”, nella sua imbecillità, che non necessità di alcuna sottolineatura musicale: sono colonna sonora lo stesso suono e contenuto delle parole. E sì, il silenzio è parte integrante del linguaggio sonoro e forte quanto esso. Questa è una delle armi più efficaci a disposizione di un compositore in genere ed ancor di più per chi si occupa di mettere della musica a commento delle immagini. Ogni autore di colonne sonore conosce molto bene questi “arnesi” poetici, così come non deve mai dimenticare che la sua musica, per quanto articolata (nel senso anche polifonico) è solo una parte. Le immagini devono essere considerate come un’ulteriore traccia, ma una traccia di un’armonia non sonora che dovrà fondersi con le sue speculazioni musicali.

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La seconda scena di cui vogliamo parlare è molto dolce e toccante in una continua alternanza di agri e dolci, di cui Tarantino è maestro. Django, il Sigfrido nero di Tarantino, sta per ritrovare dopo tante disavventure, la sua Brunilde (la brava Kerry Washington), in una trasposizione a colori della leggenda nordica. Doveroso ricordare il capolavoro wagneriano Siegfried, terzo dramma della tetralogia Der Ring des Nibelungen.
La scena inizia con la servitù nera che si appresta con particolare dedizione ad apparecchiare, ritmicamente, una tavola ricca e raffinata. Tarantino inserisce la bellissima canzone “Ancora qui” di Ennio Morricone, cantata da Elisa Toffoli: una ballata western, genere di certo non estrano a Morricone. Una canzone lenta, melodica e realizzata con nulla o quasi da un punto di vista strumentale. Una chitarra esegue un tipico arpeggio dal sapore western, sul quale si adagia la bella voce di Elisa che non si impone sull’accompagnamento e non ne diventa succube, creando una perfetta simbiosi tra musica e voce. Un organo morbido garantisce un sottofondo sufficiente ad addolcire l’arpeggiato. L’incedere delle immagini e dell’azione è lento e la musica incoraggia questo ritmo. È il preludio perfetto al tanto agognato incontro tra Django e la sua amata, ormai apparentemente persa per sempre ed irraggiungibile. La musica accompagna la padrona di casa e Brunilde alla porta del dott. Schultz (Christoph Waltz, premio Oscar proprio per questo film). La canzone si trasforma in una breve colonna sonora, in cui la voce di Elisa non sovrasta il dialogo tra il dott. Schultz e Brunilde. Gli archi si aggiungono alla chitarra, aggiungendo ulteriore dolcezza alla scena. Un basso garbato getta le fondamenta del tutto. La musica si interrompe bruscamente, così come il dialogo tra il dott. Schultz e la padrona di casa, con il chiudersi della porta.

La scena finale di Django può, a ragione, entrare dritta nell’olimpo del western e dalla porta principale. E’ un omaggio diretto e dovuto, perché no, allo spaghetti western. Tarantino attinge alla ricca tradizione italiana di questo genere e recupera la canzone “Lo chiamavano trinità” di Franco Micalizzi, dal leggendario film di E.B. Clucher (pseudonimo di Enzo Barboni) con Bud Spencer e Terence Hill.
Django-Siegfried riceve finalmente la sua vendetta e ottiene la tanto agognata ricompensa per le molte sofferenze patite, per ritrovare la sua amata immortale, come scriverebbe un altro mito romantico della musica tedesca ottocentesca. Beethoven capirebbe a fondo, è lecito supporre, i patimenti dello schiavo Django e del suo viaggio alla riconquista della sua amata immortale. Django è uno schiavo e come tale quasi del tutto analfabeta, ma se avesse potuto scrivere del suo peregrinare e dei suoi patimenti, avrebbe prodotto di sicuro le sue Briefe an die unsterbliche Geliebte.
La scena è il classico lieto fine che mostra una Brunilde divertita, intenta ad ammirare il suo amato esibirsi con il suo cavallo sullo sfondo delle macerie di Candieland: già vestigia di una condizione di schiavitù che il protagonista ha vinto per sempre e tomba involontaria di Stephen (Samuel L. Jackson), il nero del peggior nero possibile. Il nero che voleva essere bianco, vendendo la sua identità a discapito dei soli neri meno furbi di lui.

Andrea Corona è diplomato in composizione sperimentale al Conservatorio di musica di Verona e in Flauto traverso al Conservatorio di Pescara. Con l’Università di Ingegneria di Cagliari collabora come Responsabile scientifico del coordinamento e sviluppo di sistemi digitali di notazione musicale avanzata e sviluppo teorico di piattaforme informatiche in ambito musicale. E’ autore dei due volumi Teoria musicale e matematica editi da TG Book e grande appassionato di cinema. Per la scuola di cinema The Visual House condurrà il workshop incentrato sul rapporto fra la musica e le immagini, analizzando le colonne sonore di alcuni dei film più conosciuti della cinematografia internazionale.

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The Visual House è la scuola di cinema e video in lingua italiana a Berlino. La scuola è diretta da Marco Zaccaria e Roberta Chimera e offre workshops su tutte le attività che riguardano il cinema e il video a chiunque voglia approfondire la propria conoscenza della pratica cinematografica. Tutti i partecipanti ai workshop prendono parte attivamente alla produzione della web series Generation Berlin. The Visual House è partner dell’Associazione Nazionale Film-makers e Video-makers Italiani.