Melvins al Postbahnhof: recensione

Photo by Cesare Zomparelli
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Prima di iniziare a raccontare il live dei Melvins a Berlino, al Postbahnhof, proverò a partire da un paio di considerazioni numeriche.
Pensierino numero uno. Prendendo per buono il 1983 come anno di inizio dell’attività della band, il calcolo matematico recita: trentatrè anni. In buona sostanza, i Melvins sono insieme da più del triplo di quello che è considerato il ciclo vitale dei Beatles.
Pensierino numero due. Fare ordine nella sterminata discografia dei nostri è un esercizio da mal di testa. Wikipedia, ad esempio, cita: 21 album in studio, 7 album dal vivo, 6 ep, 47 singoli. Senza contare le apparizioni in compilation di materiale oscuro e raro, i progetti paralleli e chissà quanto altro ancora.
I numeri da soli non spiegano tutto, ma aiutano a farsi un’idea. A chi non conosce i Melvins viene spesso raccontato (per facilitare le cose) che erano la band preferita di Kurt Cobain. Che i Nirvana, all’apice del proprio splendore, se li portarono in tour in Europa nell’inverno del 1994.
In trentatrè anni di dischi più o meno rumorosi, più o meno radicali, più o meno “capolavori”, i Melvins hanno raggiunto lo status di band di culto. Fanno parte del laicissimo pantheon delle band rimaste in seconda fila a guardare altri raccogliere i frutti del proprio duro lavoro. Degli outsider a cui però il tempo, ogni tanto galantuomo, ha saputo restituire quanto dovuto.
Se volete provare a capire meglio i personaggi (o quantomeno il nucleo storico King Buzzo e Dale Crover) potete guardarvi questo video. Due bambine intervistano i Melvins, circa sette minuti di surreale e tenera innocenza.

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Ma andiamo al sodo, cioè al concerto di lunedì sera. Arrivo al Postbahnhof con discreto anticipo, giusto in tempo per dare un’occhiata alla fauna che inizia a confluire all’interno del locale: tantissime magliette dei Motorhead, Black Flag, EyeHateGod. In realtà, visto che ogni tanto l’abito fa davvero il monaco, la platea è equamente divisa tra punker della prima ora e metallari di varia estrazione. Età media fisiologicamente alta, più sbilanciata verso gli “anta” che gli “enta” (ma con alcuni ventenni che mi hanno fatto traboccare il cuore di gioia).
I Melvins salgono sul palco alle 20.40 con outfit a dir poco irriverente. Il nuovo bassista reclutato per il tour di presentazione del nuovo “Basses Loaded”, Steven Shane McDonald, indossa scarpine brillantate d’oro (?!) e una maglietta nera con scritta BASS, con la doppia esse dei Kiss. King Buzzo sfoggia l’occhio di Dio e la sua solita capigliatura (davvero, riuscite ad immaginare qualcosa di più iconico di quella chioma?).
Il live è una bomba a mano, tocca rispolverare la tanto abusata metafora della macchina da guerra. Pose plastiche da hard-rocker cafoni, alla Alice Cooper e, appunto, Kiss, un teatrino kitsch al punto che il labile confine tra provocazione e omaggio alla Storia del rock svanisce nel giro di cinque minuti. I Melvins sono una band antistorica e totalmente fuori dagli schemi: propongono un set decisamente più spinto verso l’hard-rock, dimostrando ancora una volta di aver filtrato e processato le lezioni di dinosauri del rock da stadio in una prospettiva molto più personale, asciutta e fangosa.
Ma è quando i ritmi rallentano che i Melvins dimostrano di essere i veri capostipiti di buona parte della musica pesante attuale. Non a caso il live inizia con Eyes Flys, direttamente dal primo disco in studio della band, “Gluey Porch Treatments”. Un’autentica palude di distorsioni e suoni melmosi (poi uno si chiede perché i Nirvana di “Bleach” suonavano così lenti, o da dove arrivano le ritmiche granitiche dei Soundgarden…).
Un’ora e venti di musica. Senza pause e senza bis, senza tirare il fiato. Fino a Night Goat, chiosa obbligata con un pezzo di “Houdini”, uno dei dischi dell’epoca “mainstream” dei Melvins, quando il successo dei Nirvana obbligò il mondo intero a gettare lo sguardo oltre il fuoco fatuo per capire le radici di quella piccola rivoluzione. Ecco: se ancora non conoscete i Melvins, o se siete semplicemente curiosi, recuperate quel disco. Partite da lì e inizierete a voler ascoltare tutto. Band così arrivano ogni trent’anni. Per l’appunto.

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