TEUTONICHE SCHEGGE – Capodanno in famiglia

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Capodanno quieto quest’anno. Di mezzo c’è un trasloco per il quale ho già ipotecato svariati anni di girone fra gli iracondi a furia di imprecare contro le altre sfere, e che mi ha impedito anche solo di fingere di cercare un’alternativa più vida loca a quella che mi è stata proposta. Ergo, il salto dell’anno (come dicono qui, Rutsch, che sa tanto di onomatopeico apprezzamento dello champagne) l’ho compiuto a Hennstedt, minuscolo paesino che si tiene con le unghie all’ultimo lembo di Teteschia prima dell’altera Danimarca.
Con me c’erano tre dei quattro fratelli W. La biodiversità, come la melanina, è stata parca con loro: sono tutti variazione sul tema. Tratti comuni: comoda fronte spaziosa, occhioni da cerbiatto ma color blu elettrico, labbra morbide senza bisogno di botulino, classico naso nordico minuto e senz’ombra di pretese dantesche. Il nr 1 è il più mingherlino, ma compensa con una tonsura naturale che mette in risalto la fronte; il numero 2 è quello che si è preso più centimetri e, per mia fortuna, riccioli; il nr 3 potrebbe fare da matrioska che contiene gli altri. A completare il bucolico quadretto, i teutoni genitori, cane ottuagenario, gatto in sovrappeso e cervi che ciondolano in giardino, l’ultimo lembo di civiltà prima del bosco e del mare del Nord che mugghia in sottofondo.
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In attesa del brindisi d’ordinanza, nr 1 dà un colpo notevole alle mie velleità di angelo del focolare, dimostrandosi formidabile quanto incallito all’uncinetto. Solo blandamente gli improperi che ritmano i fallimenti di nr 3 riescono a rincuorarmi. Mi tocca ripiegare sui natalizi Plätzchen (biscottini speziati e pan di zenzero) per chetare la coscienza. Eventualmente con una sortita sul torrone sardo che ho trafugato dai cesti natalizi del ragionier Franchina, cenno di Mediterraneo in quest’impervia landa nordica.
Del resto, queste 48h mi sembrano una pacata ode all’incontro tra un ipotetico “nord” ed un ipotetico “sud”, concetti sempre mutevoli e relativi. Così le lenticchie sopravvissute al check in, invece che con la classica polenta, le ho trangugiate con gli spätzle fatti in casa secondo ricetta sveva tramandata da generazioni. A suggello della mia iniziazione ai segreti culinari teutoni, mi è stato regalato “Le ricette della nonna”, con tanto di titolo in inquietanti caratteri gotici. Per ora è finito in uno dei sacchi del trasloco, insieme ai tanti, soliti, triti buoni propositi per il 2013. Io ho ricambiato traducendo a spanne la ricetta del classico risotto alla milanese, rinunciando per bontà d’animo di stagione a ricordare che i bergamaschi son ben altro che i meneghini.
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La famiglia W. viene da uno dei mille paesini in-ingen sulle colline fuori Stoccarda, famose per il vino e l’accento impossibile per cui tutte le “s” diventano “sc”. Ed è giusto fresca di 2013 la dichiarazione del sindaco di Prenzlauerberg secondo cui gli svevi di Berlino continuano ad essere provinciali e un po’ bigotti, a dispetto del dinamico cosmopolitismo della capitale. Insomma, a Berlino i ricchi campagnoli del Sud non van proprio giù. Per tutta risposta, dai W. a metà pomeriggio ci si sintonizza sulla Sud-West Rundschau per il settimanale appuntamento con “Laible und Frisch”, che racconta di novelli Giulietta e Romeo, lui figlio di un panettiere svevo tradizionale, che impasta Brezeln notte e giorno e trova giusto il tempo di fuggire dalla sua lei, figlia di un imprenditore amburghese che ha aperto in paese una panettiera industriale. Io rido per osmosi, complice una comprensione sollo abbozzata del dialetto pieno di dimunitivi in “-le” anziché in “-chen”, con le vocali pronunciate a caso, “net” al posto di “nicht” e gli “ich” che diventano “i” per comodità.
Poco prima dell’ultima cena del 2012, che a proposito di ispirazioni meridionali consta di fondue svizzera, quel pugno di centimetri quadri sulla cartina che dividono dove sono nata io da dove sono nati i W., si concede anche ad una tv nazionale di farci compagnia. Con cordiale pazienza, mi si spiega che non c’è Capodanno senza i 18 minuti in bianco e nero di “Dinner for one”, e ne trovo conferma sulle interviste del giornale di provincia, che fra il salvataggio di una pecorella smarrita (e non è una metafora biblica) e i problemi di obesità di una tartaruga beniamina locale, ha intervistato cittadini a caso circa i loro piani per l’Ultimo (che qui è omonimo del felino di casa, “Silvester”). La commedia inglese risale agli anni ’60, e ruota tutto intorno al 90° compleanno della nobile Sophie, che essendo sopravvissuta ai suoi cari amici, impone al maggiordomo James di bere e brindare continuamente al loro posto, con le ovvie conseguenze del caso. Il motto pare calzare anche con i riti della famiglia W: “Same procedure as every year”.
Sorvolando sugli stappamenti di champagne vari e il tripudio di fuochi d’artificio, che sembrano essere universali, uno dei momenti clou del Capodanno teutone tradizionale è quello dello scioglimento del piombo. Eh sì, perché anche a questi latitudini un po’ di superstizione non guasta, così in mancanza di fondi di caffè si fondono cubetti di piombo con le candele. Si lasciano poi raffreddare in una bacinella riempita d’acqua e le forme suggeriscono quel che sarà nell’anno che incombe. Stando ad Internet, la tecnica (“molibdomanzia”) era già dei buoni vecchi greci (e te pareva?), ma ormai sopravvive solo presso gli eredi dei barbari. La signora W. fortunatamente non trova il libercolo che, a mo’ di Smorfia, ci consentirebbe una lettura scientifica del nostro imminente futuro, così per un po’ ognuno intravede nel piombo che si solidifica quel che vuole.
A mezzanotte, poi, un’altra chicca, stavolta strettamente della Germania del nord: il Rummelpott. I bambini del quartiere bussano di porta in porta battendo su una specie di tamburello che, se confezionato come tradizione comanda, sarebbe di vescica di maiale. Non controllo, piuttosto osservo i bambini incassare la loro quota di dolciumi e andarsene beati, mentre canticchiano rime in plattdeutsch, il dialetto locale.
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Varcata la soglia del 2013, sono solo i giochi di società che ci impediscono di cedere a Morfeo, fin troppo alacremente coadiuvato da Schnapps vari. Riscopro l’antico spirito guerriero battendomi a “Stadt, Land, Fluss”, in sostanza il classico giochino da ore buche a scuola, dove si scelgono le categorie e si estrae una lettera. Qui hanno il vantaggio che se si pesca la “O” alla voce “nazioni” oltre all’Oman si può scrivere anche Ősterreich. Dopo aver dibattuto se le Faer Oer sono o meno da considerarsi valide, si passa ad una versione famigliare di “Uno”, con regole sfalsate, e poi ad un altro di carte di cui capisco il meccanismo quando ormai solo io e i 3 W siamo ancora in piedi, provati e con le lingue impastate.
Il primo gennaio, un pasto a base di crauti, patate e barbabietola mi rammenta (casomai me lo fossi scordata) dove sono, così come il funzionamento (impeccabile) dei treni che mi riportano a quella che, per ancora due giorni, è casa mia. Allo sbiascichio brandeburghese del coinquilino si mescolano gli auguri in francese di N., il ragazzo di nr 4, unica figlia dei W, e al campanello sulla Greifswalder un seminarista mi annuncia un sondaggio fra gli italiani di Berlino, dal titolo “Vale ancora la pena credere in Dio?”
Anche il 2013, si spera, sarà all’insegna di un continuo ondeggiare, che sia verso nord, sud, est o ovest, poco importa.
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