La coppa della storia: cronaca di un tripudio mondiale a Berlino

© Casey Hugelfink / CC BY-SA 2.0
© Casey Hugelfink / CC BY-SA 2.0
di Claudio Mellone

Tutti i lampioni, uno per uno, sono stati numerati: dispari sul lato sud e pari sul lato nord, così da avere un riferimento preciso in caso di smarrimento. Fra un maxischermo e l’altro sono state disposte lunghe file di bagni chimici, mentre chioschetti di birra e salsicce riforniscono il popolo della Fanmeile di Berlino, la Straße des 17. Juni, il “miglio dei fan” più importante della Germania che, tagliando il Tiergarten, unisce la Porta di Brandeburgo alla Colonna della Vittoria: è la sera della finale mondiale 2014 Germania-Argentina, il 13 luglio 2014, una data che lo speaker invita più volte a segnarsi sul diario perché è il giorno in cui la Germania vincerà la Coppa del Mondo.

Due ore prima dell’inizio della partita l’intero Tiergarten è solcato da sciami di tifosi che, incuranti della pioggia insistente, si avviano nella zona per seguire la diretta da Rio de Janeiro insieme ad altre centinaia di migliaia di persone. C’è fila al primo dei controlli di sicurezza (saranno in tutto tre), la folla proveniente dalla Großer Stern spinge, si accalca, ha paura di rimanere tagliata fuori perché la polizia è autorizzata a bloccare gli ingressi non appena lo spazio transennato raggiunge la sua capacità massima.

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Piove a dirotto, gli ombrelli sgocciolano nei colletti delle camicie, ci sono giovani coppiette, madri con figlie, ragazzotti eccitati che già innalzano i loro canti gutturali e si agitano e sgomitano. C’è qualche screzio con gli addetti alla sicurezza ma poi, dopo il controllo borse e una perquisizione sommaria, si passa. Dall’altra parte c’è un po’ più di spazio, si torna a camminare. La maggior parte delle persone, confidando nella velocità di estinzione delle piogge berlinesi dei giorni precedenti, non ha portato né ombrelli né impermeabili, è bagnata fradicia e prova a coprirsi con quello che trova: pezzi di cartone, bandiere subito zuppe, pullover rapidamente intrisi, magliette supplementari.

Un’ora e mezzo prima dell’inizio della partita gli accessi alla Fanmeile vengono chiusi: lo spazio è al completo, non entra più nessuno. La folla si accalca sotto ai maxischermi che trasmettono immagini dal palco principale di fronte alla Porta di Brandeburgo, un intrattenitore arringa la folla, sbandiera il tricolore tedesco, introduce una band che suona e batte forte sui tamburi. L’atmosfera è elettrica e l’eccitazione è ai massimi livelli: c’è nell’aria la certezza matematica che la Germania sarà campione del mondo, quasi che la partita fosse un dettaglio fastidioso, un obbligo burocratico da sopportare con pazienza prima della festa della vittoria.

Quasi tutti i convenuti a questa sorta di rito collettivo portano sul loro corpo un segno del tricolore nero rosso giallo: una corona di fiori finti, un cappello con le manine, la maglietta bianca della nazionale o anche una semplice polsiera. Moltissimi hanno le gote dipinte: nell’enorme merchandising che gira intorno alla partecipazione della nazionale tedesca alla Coppa del Mondo qualcuno ha pensato bene di mettere in vendita un pratico matitone a tre punte che disegna sulla pelle, senza sbavature né incertezze, i tre colori della bandiera.

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Mezz’ora prima della partita, la folla è impaziente di veder giocare i suoi beniamini. Sotto al palco principale è già tutto uno sventolare di bandiere, un saltare, un innalzare cori: nell’attesa, qualcuno si accoda in una delle lunghe e ordinate file per prendersi un currywurst o un bicchiere di birra una metà del cui contenuto, sistematicamente, cade a terra o sulle schiene degli altri che comunque sembrano non curarsene troppo. Nel frattempo ha smesso di piovere e le persone non stanno più nella pelle. Il maxischermo comincia a trasmettere la diretta dal Brasile, compaiono i visi dei giocatori della Germania e la folla esplode a ogni inquadratura. A terra è già un tappeto di bicchieri di plastica rotti, mignon di liquore vuote, magliette calpestate, cartoni spappolati. Molti sollevano già i loro telefoni sopra la folla per fare fotografie, mentre gli autoscatti di gruppo si sprecano: sono turisti americani in visita a Berlino, messicani, neozelandesi, francesi, qualche sparuto italiano.


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Inizia la partita: la folla grida e alza le mani, sotto al maxischermo una schiera compatta di fotografi riempie il palco e punta gli obiettivi lungo la prospettiva della Fanmeile, sfruttando i pochi raggi di sole che fanno timidamente capolino da sotto le nubi. Ogni azione della Germania è sottolineata da urla, applausi, sospiri di gruppo. Il primo tempo è veloce, emozionante, giocato: ci si rende conto che lo storico 7 a 1 contro il Brasile è stato un episodio eccezionale e che l’Argentina è un osso ben più duro degli inesistenti padroni di casa.

L’eccitazione dei primi minuti lentamente si smorza, gli sguardi si fanno più attenti, ci si rende conto che questa finale di coppa del mondo non sarà una passeggiata come tutti credevano. Poi, all’improvviso, l’Argentina mette la palla in rete: la folla non dà segni di vita, come stesse assistendo a una timida rimessa laterale, ma in realtà è il terrore a bloccarla. Poi il guardalinee alza la bandierina del fuorigioco e allora un’esplosione di gioia fa rimbombare il terreno sotto alla Porta di Brandeburgo, esattamente là dove venticinque anni prima si abbatteva il Muro colle ruspe, coi picconi o a martellate.

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La partita va avanti così, fra bandiere e cori di “Superdeutschland, Superdeutschland olé olé”. Finisce il primo tempo, inizia il secondo: le squadre sembrano più stanche, ci sono meno scintille. Si va ai supplementari. Tutti pregano che non si debba andare ai rigori e annegano l’incubo nell’ennesima birra. Molti cominciano a barcollare, si appoggiano spalla a spalla per non cadere, hanno visi arrossati o solcati dalla tinta tricolore dei capelli che si è sciolta con la pioggia. Ci sono occhi stanchi ma attenti, bisogna tenere duro fino alla fine: c’è tensione, la baldanzosa certezza di vittoria ha ceduto il passo a un’inquietudine cauta e vigile.

Ma al 113’ minuto ecco il gol della Germania: si solleva un boato gigantesco, partono subito alcuni mortaretti, la folla balla, salta, molti fanno fotografie o riprese video di quel momento ma è difficile avere la mano ferma. Bandiere, razzi colorati e tanti fumogeni: gli ultimi minuti della partita sono annebbiati da nuvole grigie che salgono di fronte allo schermo, la voce della telecronaca scompare definitivamente dietro alle grida della gente che è presa da una gioia ormai incontenibile.

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Poi arriva il momento atteso da anni: l’arbitro fischia la fine della partita, ossia la fine dei campionati mondiali di calcio 2014 e simbolicamente, dal punto di vista tedesco, del lunghissimo cammino intrapreso dalla Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale per liberarsi dalle vergogne della storia e per tornare a essere uno Stato protagonista. Osservata da sotto la Porta di Brandeburgo, questa vittoria ha tutto il sapore del coronamento di un sogno, è la ciliegina sulla torta di un percorso faticoso, drammatico, talvolta doloroso per rialzarsi dalle macerie e arrivare a essere quello che la Germania è oggi: una nazione ricca, efficiente, operosa, invidiata, unica stella a brillare nell’Europa della crisi e delle disuguaglianze, per quanto essa stessa dilaniata da uno sbilanciamento sociale dai tratti talvolta spaventosi.

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Ma da domani sarà così: Weltmeister, campioni del mondo, come continua a gridare la folla sotto al maxischermo. Una ridda di fuochi d’artificio parte dal Tiergarten per salutare la vittoria mentre Merkel e Gauck, a Rio de Janeiro, abbracciano i giocatori e stringono le mani. Schweinsteiger, il calciatore che ha riscosso più applausi e urla di giubilo nella serata, alza al cielo la Coppa del Mondo. La Germania è tutta lì, con i suoi ragazzi e il loro trofeo: l’apoteosi di una nazione. E il resto del mondo, come titolava qualche giorno prima un quotidiano nazionale, “ai nostri piedi”.

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