Vegani: più di una moda, meno di una filosofia

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Berlino è, per i vegani, la città migliore al mondo, quanto meno per l’offerta di ristoranti.

Secondo l’associazione dei vegetariani tedeschi (VEBU) il numero dei vegani in Germania nel 2015 è pari a circa 900.000 (1,1% della popolazione).

Questi due dati dimostrano che il veganismo è entrato, per così dire, a far parte del cuore della società tedesca (e lo stesso vale anche per altri paesi d’Europa).

Perché questo stia succedendo non è ancora chiaro. Studi scientifici ce ne sono ancora pochi e solo qualche mese fa, ad Amburgo, ha preso avvio la prima indagine di tipo quantitativo-sociologico sul fenomeno. Alcuni dati: l’età media dei vegani intervistati (complessivamente 850) è di 32 anni, la presenza femminile è decisamente maggioritaria (80%), la maggior parte dei vegani ha studi universitari alle spalle. In media gli intervistati sono vegani da 5 anni e lo sono diventati seguendo amici che già lo erano in precedenza.

Qualsiasi fenomeno sociale e culturale quanto diventa popolare, per non dire di massa, perde un po’ del proprio “radicalismo”: la stessa cosa vale per il veganismo. Mentre per i primi vegani il rispetto per gli animali era una componente fondamentale delle proprie scelte alimentari, ora per molti la scelta vegana rappresenta un fatto di natura salutistica.

E che il veganismo sia diventato un fenomeno di massa lo dimostra anche il numero di libri che in questi ultimi anni è riuscito a vendere in Germania Attila Hildmann, un ex studente di fisica di Berlino di origini turco-tedesche, capace di far acquistare 800.000 copie dei suoi libri, “Vegan for fun” e “Vegan for fit”. Un successo, questo, accompagnato dalla naturale perdita di molti degli aspetti che rendevano il veganismo più “dogmatico” e dal contemporaneo accrescimento della sua “attrattiva” sociale.

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D’altronde non credo che il veganismo possa essere considerato altro che uno stile di vita; non ha certamente la struttura di una filosofia (stento a credere che fra 80 anni i nostri discendenti studieranno il veganismo come oggi si studia l’esistenzialismo), mentre probabilmente non può neanche essere considerato una semplice moda (malgrado oggi si possa ritenere che sia diventato “di moda”). L’essere vegano è, per così dire, una scelta etica, e proprio per questo è una scelta duratura, che ovviamente contrasta dal proprio punto di vista con qualsivoglia trend di natura momentanea.

Il rispetto degli animali è certamente uno dei fattori fondamentali alla base della scelta di molti vegani di sposare questo stile di alimentazione e di vita e la contrapposizione in merito a questo problema ha dato e da adito a molte dispute.

Mucche e capre hanno gli stessi diritti degli esseri umani? Sia i favorevoli che i contrari ritengono, ovviamente con motivazioni differenti, che chi non è d’accordo con loro assuma un atteggiamento “contro natura”. I primi negano all’uomo qualsiasi diritto allo sfruttamento degli animali; i secondi, detto in modo grossolano, negano a sardine e polli i diritti alla personalità che si riconoscono agli uomini, o comunque non riconoscono gli animali quali soggetti aventi gli stessi diritti degli uomini.

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Secondo i favorevoli non importa che gli animali non abbiano sviluppato alcuna coscienza giuridica o non abbiano una personalità morale; i bambini non hanno né l’una né l’altra, eppure nessuno pensa di limitare i loro diritti fondamentali. Secondo i contrari per l’essere umano cibarsi di animali è inevitabile quanto naturale: o dovrebbe essere esteso a tutto il regno degli animali il sistema giuridico di rispetto dei diritti fondamentali che a stento riusciamo noi stessi a rispettare? Paradossalmente, essi affermano, se così fosse si dovrebbe impedire a un leone di mangiarsi uno gnu o a un gatto di divertirsi con il corpo martoriato di un topolino già morto.

Questi ultimi sono ovviamente parossismi, ma quando il discorso si spinge a volere attribuire delle caratteristiche alla “vera natura dell’uomo”, che a seconda delle posizioni lo porterebbe a cibarsi o meno di carne animale, qualche domanda me la pongo: conosciamo così bene la natura dell’essere umano? Fino a che punto si può accettare che il confine esistente tra uomo e animale venga superato? Coscienza, per l’uomo, significa anche sapere di soffrire, e quindi soffrire del dolore sia psicologicamente che fisicamente. Possiamo dire lo stesso di un qualsiasi animale?

L’altro aspetto che spinge molte persone a diventare vegane è quello salutistico: secondo molti, seppure non in modo automatico, un’alimentazione vegana consente di vivere in modo molto sano. A molti, infatti, i diritti degli animali o gli allevamenti intensivi importano meno o non sono comunque sufficienti a motivare la scelta di adottare questo stile di vita, essendo invece la salute e, per altri, la forma fisica, la cosa fondamentale.

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In realtà, da quanto mi risulta, dal punto di vista scientifico poco si sa, ad esempio, se i vegani vivano di più dei non vegani (i dati disponibili sono ancora troppo pochi), mentre alcuni studi paiono dimostrare la presenza di un certo effetto placebo, per cui fastidi di natura diversi vengono superati grazie a una dieta vegana, pur se è impossibile stabilire rapporti di causa-effetto tra miglioramento della salute e alimentazione. L’assenza nell’alimentazione vegana della vitamina B12 può invece avere effetti anche gravi.

A prescindere da tutto ciò, comunque, condivido fino in fondo un messaggio dei vegani, che per parte mia è il più importante, a prescindere dai diritti degli animali e dai benefici alla salute:  l’alimentazione non è un fatto privato, per gli effetti che essa ha nei confronti di altri uomini, degli animali e dell’ecosistema. Certo, i vegani non sono i primi ad avere riconosciuto l’importanza di questo messaggio, e non saranno neanche gli ultimi. Poco importa. L’importante è avere coscienza di questa circostanza, che ci consente, quanto meno, di capire che siamo molto più interdipendenti con il nostro ambiente circostante di quando generalmente crediamo.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul blog di pavel chute.

PAVEL CHUTE è nato a Milano nel 1970. È laureato in Scienze Politiche e in Lingue e Letterature Straniere e ha vissuto a lungo in Inghilterra e in Germania (Berlino, Costanza, Colonia) dove ha studiato Africanologia. Lavora come traduttore e ha iniziato recentemente a scrivere racconti e brevi romanzi.

UNA FINESTRA SU BERLINO è una rubrica rivolta agli italiani che vivono in Germania e a coloro che sono interessati a questo paese, raccontato in modo oggettivo, senza schieramenti, riconoscendone per quanto possibile pregi e difetti. Il tutto con un linguaggio semplice, ma diretto.