Sindrome di Down e diagnosi prenatale: quando il sistema cerca di condizionare la futura madre

Torna “Diversabilmente a Berlino”, una nuova rubrica socialmente utile che siamo felici di ospitare sulle pagine del nostro magazine. La rubrica, realizzata grazie agli amici di Artemisia, ha lo scopo di informare sulle diverse abilità e al tempo stesso di servire da spunto a chiunque voglia, attraverso “Il Mitte”, promuovere una riflessione sul tema. Se volete fare domande o approfondire gli argomenti di cui parleremo, non esitate a contattarci!

Nel frattempo, lasciamo la parola ad Amelia Massetti, fondatrice di Artemisia, che ci parla oggi di una questione delicatissima: la diagnosi prenatale e il modo in cui il sistema spesso cerca di spingere le donne ad abortire, nel caso venga diagnosticata una patologia del feto.

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di Amelia Massetti

Il dibattito che si sta aprendo su chi dovrebbe pagare il test prenatale per accertare se un bambino abbia o meno la sindrome di Down, rilancia in Germania una questione importante sul valore dell’inclusione delle persone diversamente abili all’interno della societá.
Questa inclusione è purtroppo ancora ostacolata da un percorso obbligato che si snoda fra scuole speciali, case condivise e laboratori per persone diversamente abili, stato di cose che in qualche modo determina una segregazione di fatto e un impiego “selettivo” delle risorse. Anche i costi sostenuti dallo Stato, per lo più finalizzati proprio alla creazione di queste strutture separate, non lasciano infatti spazio per altri progetti, per esempio quelli che puntano a un reale inserimento delle persone diversamente abili all’interno società.
In base allo stesso principio il sistema investe maggiormente sulla ricerca e la diagnostica prenatale, allo scopo di evitare il più possibile che nascano bambini Down, piuttosto che sulle metodologie e gli interventi necessari per migliorare la qualità della loro vita, dopo la nascita.
Se però si motiva la scelta della diagnosi prenatale pagata dalla cassa malattia con l’assunto che questo garantisca un minor numero di nascite di bambini diversamente abili, quello che viene percepito dalla collettività è il fatto allarmante che queste persone siano indesiderate e vada quindi a tutti i costi impedito loro di nascere.
Dal 2005 in Danimarca le donne incinte sono spinte dai medici a fare la diagnosi prenatale e nel caso si diagnostichi nel feto la sindrome di Down si tende a consigliare l’aborto, convincendo la futura madre del fatto che la nascita di un figlio Down comporti un carico di responsabilità enorme, anche per il resto della famiglia. Per questo motivo negli ultimi anni si è riscontrata in Danimarca una tale flessione nelle nascite di bambini Down, da far ritenere che nel giro di 20 anni potrebbero addirittura non esserci più persone con questa sindrome.

Insomma, ancora una volta si finisce per demonizzare il diversamente abile, un po’ come succedeva nell’antichità, quando i bambini deformi venivano buttati giù da una rupe.
Invece di lavorare per promuovere l’inclusione, sia nella scuola che sul posto di lavoro, la nostra societá sta regredendo verso uno stadio in cui le differenze non vengono accettate, ma piuttosto eliminate prima ancora di nascere.
Rispettando naturalmente la donna e in generale i genitori, che hanno la libertà di decidere se avere o meno un figlio diversamente abile, non si può tuttavia non rilevare come una politica che tende a stigmatizzare in questo modo, rischi di far sentire escluse tutte quelle famiglie che invece decidono di fare una scelta diversa.
Inoltre non si prende neanche in considerazione quanto possa essere doloroso per le persone Down, perfettamente capaci di capire il senso di questa discriminazione,  sentirsi considerate una specie da estinguere.
In questo modo la società tende a favorire la nascita del figlio perfetto, magari “biondo e di pelle chiara”, e a proporre l’eliminazione pre-natale di chiunque non sia normodotato. Come possono a questo punto i diversamente abili e le loro famiglie, sulla base di queste premesse, sentirsi accettati da chi li considera soggetti da eliminare a priori? Invece di superare gli stereotipi e i pregiudizi nei confronti della disabilità si tende quindi a “eliminare il problema” alla radice, senza considerare che una società che si adoperi per migliorare le condizioni di vita delle fasce più deboli può essere essenziale per alcuni e utile per tutti.

Chi voglia approfondire il discorso, può recuperare qui degli spunti interessanti.
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