Etta Scollo, la voce siciliana che incanta la Germania

Etta Scollo
Etta Scollo (Gitarre, Gesang) und Susanne Paul (Cello) Foto: stephan-roehl.de Heinrich-Böll-Stiftung from Berlin, Deutschland, CC BY-SA 2.0 , via Wikimedia Commons

Etta Scollo, Vive all’estero da quasi trent’anni e ha viaggiato moltissimo, più per amore che per lavoro. Le sue canzoni sono conosciute in tutto il nord Europa, ha collaborato con Battiato e Kim Ki-duk, eppure in Italia resta ancora un’artista di nicchia. Ha all’attivo oltre 13 dischi: l’ultimo, pubblicato nel 2011, si chiama Cuoresenza

Etta Scollo è – prima di tutto – un personaggio. Lo è perfino quando arriva al Café Manzini di Berlino in sella alla sua bicicletta e, trafelata, comincia a scusarsi (in tedesco) per il ritardo. La simpatia, nei confronti di questa cinquantenne ragazza siciliana dalla voce inconfondibile, è praticamente immediata. Etta vive a Berlino da poco più di un lustro e in Germania da quasi un ventennio. Ha viaggiato molto, più per amore che per lavoro, seguendo “quell’incoscienza di un’eterna innamorata” che ne ha contraddistinto la vita e la musica.

Le sue canzoni sono conosciute in tutto il nord Europa, un po’ meno in Italia, dove resta ancora un’artista di nicchia. Ha pubblicato oltre tredici dischi: l’ultimo, Cuoresenza (Trocadero, 2011), è un concept album che racconta la storia di un cuore che un giorno scopre di avere perso il corpo cui apparteneva, e da quel momento comincia a viaggiare attraverso le canzoni che hanno segnato i capitoli della sua vita.

Cominciamo proprio da qui. Com’è nata l’idea?
Cuoresenza è stato, come direbbero qui in Germania, “una scelta di pancia”. Il disco è nato da un motivo emozionale, dalla crisi seguita alla fine di una relazione durata diciotto anni. Il cuore di cui parlo è il mio: un cuore alla ricerca dell’armonia perduta, dell’equilibrio svanito tra emotività e razionalità. Quest’album è nato dall’esigenza di capire perché l’amore finisce, perché ci si sente soli e come ci si può ritrovare e ribilanciare emozionalmente. É stata una specie di terapia per me, ed è servito.

In Cuoresenza, alle tue reinterpretazioni di grandi classici della canzone italiana si affiancano composizioni originali e poesie musicate. Come hai scelto i vari capitoli che compongono il racconto?
Ho voluto canzoni che hanno per me un grande significato e hanno segnato la mia vita: da “La donna riccia” di Modugno, che cantava mio padre quand’ero bambina, a “Canzone dell’amore perduto” di De Andrè, che descriveva alla perfezione il mio stato d’animo nel periodo delle registrazioni. Ci sono poi atmosfere completamente diverse, quelle ironiche di Jannacci e di Stefano Benni e quelle romantiche di Battiato. Fino a Cuoresenza, l’unico brano di cui ho scritto sia musica che testo, in un certo senso la conclusione del viaggio che racconto nel disco. Mi sono astenuta dallo scrivere e dal comporre troppo. Mi sono affidata ad un produttore cui ho delegato la scrittura degli arrangiamenti – cosa che, in genere, non faccio – per riuscire a concentrarmi solo sulla parte interpretativa ed emotiva. Ho avuto momenti di crisi, ho pianto, avevo anche ripreso a fumare. Prendi ad esempio Die Novak, l’unico brano in tedesco: l’abbiamo registrata alle 9 di mattina, la sera prima ero stata ad un concerto ed ero distrutta, fisicamente ed emotivamente… Tutti questi elementi credo si possano sentire nelle canzoni.

A maggio comincerai un nuovo tour, l’ennesimo per te in Germania. Com’è l’accoglienza del pubblico tedesco nei tuoi confronti e come è cambiata nel corso degli anni?
Ormai tra me e il pubblico tedesco si è instaurato un rapporto di amicizia. Comunque, in generale, l’accoglienza dei tedeschi è sempre calorosa. É un pubblico mediamente molto acculturato che ha sempre avuto un grande amore per l’Italia. Basti pensare a Goethe e al suo “Viaggio in Italia”. Talvolta, dopo i concerti, qualcuno mi si è presentato portando i 45 giri di Rita Pavone o di Mina degli anni ’60, cantati in tedesco. Rispetto a prima, oggi ai tedeschi piace ascoltare l’italiano. Allora invece i cantautori si adattavano, facevano i cosiddetti Schlager (canzone leggera kitsch, ndr)… era divertente, Mina cantava anche in tedesco pur non sapendo neanche cosa dicesse. Il pubblico tedesco ha seguito l’Italia sempre e ne ha seguito tutti i cambiamenti, anche politici, culturali, artistici. Ha sempre guardato all’Italia con interesse e curiosità, con un occhio diverso da quello dei francesi o degli inglesi, un occhio più vigile, più costante e anche più fedele.

Tu sei emigrata in Germania ormai due decenni fa. Come ci vedono i tedeschi ora e cos’è cambiato rispetto a prima?
Oggi l’italiano ha perso quel senso esotico che aveva un tempo. Non è più l’immigrato in cerca di lavoro, non è più l’operaio della Volkswagen. In compenso, ha mantenuto quella spontaneità che ai tedeschi piace tantissimo: noi siamo quelli che aprono la porta a tutti, quelli che ti invitano a cena senza tanti complimenti. Loro vengono molto colpiti dalla nostra accoglienza, si divertono e, dopo lo stupore iniziale, si lasciano trascinare. Questa ventata di italianità dà a Berlino, la città in cui adesso vivo, una connotazione diversa, più internazionale.


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Da quanto tempo vivi a Berlino?
Sono arrivata qui tardi, nel 2005. Ci volevo venire già da tanti anni – prima vivevo ad Amburgo – ma il mio compagno non voleva. Quindi ci venivo clandestinamente. Prendevo il treno veloce, che qui è davvero veloce: in un’ora e mezza sei in città, giusto il tempo di leggere un giornale. Venivo a trovare i miei amici. Berlino è un po’ la New York degli anni ’80 come vitalità e come quantità di eventi e di movimenti culturali che la attraversano. Quando finalmente abbiamo deciso di venire a Berlino, il nostro obiettivo era quello di dare una svolta alla nostra vita e alla nostra relazione. Ma le cose non si risolvono semplicemente cambiando città. Per me trasferirmi a Berlino ha significato vivere una crisi personale e iniziare una nuova fase. All’inizio vivevo in periferia, a Lichtefeld. Praticamente in campagna: incontravo più spesso volpi e scoiattoli che persone, non c’era vita sociale e questo mi pesava. Con la fine della nostra relazione, mi sono spostata a Wilmersdorf, più vicino al centro, dove ho comprato casa. Qui ho riscoperto la città, giro in bicicletta, ho riallacciato anche tanti rapporti. Mi sono ributtata nella vita e sono molto felice. A Berlino sto benissimo.

Da Catania a Berlino la strada è lunga. Quali sono state le tappe intermedie?
La mia è una biografia un po’ anomala. Vengo da una famiglia siciliana molto aperta, di sinistra. Mio padre era un avvocato che lottava contro la mafia. Per lui avrei prima di tutto dovuto studiare e rendermi autonoma. Io invece scelsi di sposarmi a diciotto anni e di seguire il marito al nord. Questo lo sconvolse. Mi ritrovai a Torino alla fine degli anni ’70, gli anni peggiori, gli anni di Piombo. Li cominciai a studiare architettura, ma Torino al tempo era davvero una città invivibile, tanto che decisi di andarmene. Così emigrai a Vienna, dove mi iscrissi al conservatorio. Avevo lasciato mio marito e seguivo un pianista di cui mi ero follemente innamorata. Al tempo Vienna era una città in trasformazione, con un’anima a metà tra tradizionale e libertina. Le signore indossavano i cappellini con la piuma e poi, a casa, parlavano di sesso in modo molto libero, bevevano lo Schnaps e facevano la sauna. Io ero un controsenso vivente… una siciliana a Vienna non si era mai vista. Spesso mi sentivo fuori luogo. Così stetti per cinque anni con la valigia già pronta sulla soglia. E alla fine, sentii che era arrivato il momento di partire ancora.

Verso quale meta?
Al seguito di un nuovo, grande amore, mi trasferii ad Amburgo. Anche lì fu un’esperienza particolare, perché è una città profondamente nordica, quasi anglosassone. Essendo una città di porto, è molto aperta. Basti pensare al Reeperbahn, un viale pieno di locali di strip-tease, che oggi è diventata attrazione per turisti. La scena musicale è molto interessante. Tenni uno dei miei primi concerti allo Star-Club, il locale dove hanno suonato anche i Beatles durante il loro periodo tedesco.

La Sicilia però non l’hai mai abbandonata. Come vivi oggi la tua città natale, Catania? Ad aprile tornerai a suonarci, allo Zo, nell’ambito del Marranzano World Festival.
Da una decina d’anni a questa parte, Catania ha subito un cambiamento negativo. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 aveva vissuto una stagione di grande apertura dal punto di vista musicale e culturale. Dopo è cominciato un periodo di oscurantismo: la zona del centro, dove prima sorgevano i locali per musica e concerti, è diventato una zona pedonale per turisti. La situazione politica è tragica. Mi ricordo le serate a passeggiare in via Etnea al buio, perché l’ex sindaco risparmiava sulla luce. Una tristezza. Però i catanesi sono tosti, hanno una grande energia e una grande perseveranza. Soprattutto i giovani, sono molto agguerriti e intelligenti. Personalmente supporto come posso queste sinergie. Vedere Catania diventare una cittadina fighetta mi rattrista, perché non è solo questo: Catania può dare molto di più.

Ora ti dirò qualche nome di persona. Raccontami che cosa ti lega ad ognuna di esse.
Vai.

Franco Battiato.
Un amico, un uomo leale, semplice e colto. A vederlo sembra una persona rigorosa, ma ha una grande leggerezza e un senso dell’umorismo impressionante. Franco mi ha dato l’onore di partecipare ad alcuni suoi concerti e ha accettato di essere ospite nel mio album sui poeti arabi “Il fiore splendente”. Lui “cura”, nel vero senso della parola, l’amicizia. Tra l’altro possiede una casa a Berlino, ogni tanto vive qui.

Vincenzo Consolo.
L’innamoramento della luna, il ritorno alla mia cultura. Ho scoperto Vincenzo a fine anni ’80, leggevo i suoi libri ad Amburgo e mi struggevo. Lui mi ha donato quella Sicilia che ho sempre amato e che inconsciamente tenevo nascosta dentro di me. Vincenzo Consolo è il mio prossimo progetto, cioè un album dedicato a Lunaria, la sua novella. E’ una cosa che mi ha chiesto lui due anni fa. Fu stranissimo: lui venne a Berlino nel settembre del 2009 per propormi l’idea. Era esattamente due giorni dopo la mia separazione. Io ero fuori di me, mentalmente a pezzi. Il progetto mi entusiasmava e ho accettato di corsa ma, a quel tempo, non avevo la serenità necessaria per dedicarmici. Ho cominciato a scrivere le musiche solo l’anno scorso. Lui però nel frattempo si è ammalato e, nel giro di qualche mese, è morto. Un colpo terribile. Comunque gli ho giurato che porterò a termine questa cosa, e così sarà.

Kim Ki-duk.
Ha usato una mia canzone per un suo film (“I tuoi fiori” in Bad Guy), cosa che mi ha fatto molto piacere. Però non l’ho mai incontrato, ha avuto rapporti solo con la mia casa discografica. Vorrei conoscerlo, è un mito lontano. L’esotico per eccellenza. Sono onorata che lui abbia scelto quel brano che, tra l’altro, in quella scena ci sta a pennello. Io stessa ho avuto i brividi, quando ho visto il film… lancio un appello, se vuole che scriva nuova musica per lui, sono a sua disposizione.

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