Riparte il corso di fotografia de Le Balene Possono Volare. Intervista al docente, Paolo Lafratta

Foto di Paolo Lafratta

Paolo Lafratta sarà il docente, dal prossimo 7 ottobre, del corso di fotografia, livello base e intermedio, organizzato da Le Balene Possono Volare. Un percorso studiato per quanti hanno una passione naturale verso l’immagine e il mezzo fotografico e sono interessati ad allargare il loro piano di competenze e conoscenze rispetto all’utilizzo della macchina.
Sabato 7 ottobre, alle ore 15.30, presso il Wale Cafe, si terrà la prima lezione gratuita del corso, cui è possibile iscriversi inviando un messaggio di posta elettronica a [email protected] e del quale potete trovare tutti i dettagli dando un’occhiata all’evento facebook dedicato .

Per ragionare insieme di fotografia e di come stia cambiando il senso dell’immagine nel mondo contemporaneo, abbiamo fatto una lunga chiaccherata con Paolo Lafratta, oggi uno dei più importanti fotografi italiani a Berlino. Arrivato in Germania nel 2013, collabora con numerose agenzie di moda internazionali ed è un vero e proprio riferimento della comunità creativa italiana residente nella capitale tedesca. Nonostante operi principalmente come fotografo commerciale, soprattutto nel campo dell’advertising, nel tempo ha portato avanti anche diverse collaborazioni fotogiornalistiche, realizzando immagini di reportage per Repubblica, Avvenire e diverse altre testate. È senza dubbio questo il punto più interessante della sua carriera, cioè a dire la grande capacità di variare fra diversi generi fotografici, di misurarsi con immagini e contesti anche estremamente diversi fra loro, ma sempre con estrema competenza e senza perdere il focus centrale del suo lavoro, che è appunto la fotografia commerciale. Un percorso professionale completo, all’interno del quale si inserisce anche una sorprendente ricerca stilistica personale, focalizzata su una fotografia di ritratto che viene interpretata sia nelle forme più tradizionali che attraverso sperimentazioni tecniche inedite.

Foto di Paolo Lafratta

Ti ricordi la prima volta che hai scattato una fotografia?

Se dovessi scommettere direi una foto fatta a mia madre o a mia sorella, quasi certamente con la vecchia macchina di mio padre, da piccolissimo. La mia prima foto “organizzata”, diciamo così, invece credo di ricordarla bene, avrò avuto 6 o 7 anni. Fu un gioco con mia sorella, ci vestimmo da punk anni ’80 e ci mettemmo a scattare in un pomeriggio estivo, in giardino: è un bel ricordo.
La prima foto con la presunzione di fare un bello scatto invece la feci alla mia ex fidanzatina, a 19 anni, ed è un ritratto. Era una cosa molto semplice, uno scatto al tramonto, con luce ambientale, ma ritoccato con i mezzi dell’epoca, in maniera aggressiva e poco elegante.Allora mi piaceva molto quell’immagine, ne andavo fiero, la facevo vedere in giro: adesso mi fa sorridere.

Qual è stata la tua prima macchina fotografica?

Ho cominciato, come credo sia capitato a molti, con la macchina ereditata da mio padre, una Canon AT1, una vecchia ma bellissima camera a pellicola, con un obiettivo 50mm. Era una macchina classica e me la portai dietro fino a quando non mi iscrissi alla Scuola Romana di Fotografia. Ci feci le prime foto, che se le riguardo oggi, devo ammetterlo, non trovo brutte, magari inesperte, ovviamente, eppure credo si possa già notare una certa attitudine alla composizione. A quell’epoca, sono passati quasi 15 anni ormai, mi piaceva molto fotografare lo sport, nonostante il mezzo tecnico a mia disposizione non fosse davvero adatto. Era una macchina a pellicola, senza fuoco automatico, ricordo che andavo agli incontri di pugilato e da bordo ring cambiavo il fuoco manualmente: ti garantisco che non è una cosa tanto semplice. Ho ancora quella macchina, ma purtroppo non la uso quasi più.

Foto di Paolo Lafratta

Sei partito con questa vecchia macchina di tuo padre e poi come sei andato avanti, sei passato subito a una macchina professionale?

Quando mi accostai in maniera più personale alla fotografia comprai la mia prima digitale, nel 2001, una compatta della Kodak, si chiamava Easyshare. Aveva una forma bombata, quasi avverinistica, e soprattutto potevi vedere subito le foto sul dorso. Adesso è normale, ma allora non erano tante le macchine che avevano questa funzione, ricordo ancora che la gente si fermava incuriosita a guardare. Per quella macchina fotografica spesi anche dei soldi in più, perché scelsi la versione con la risoluzione più alta, quella da 1.3 milioni di pixel: oggi fa ridere pensarci, però dà l’idea di quanti progressi si siano fatti in termini di definizione. Dopo la Kodak presi una macchina da 4 milioni di pixel, era una Konica Minolta, una casa che oggi non esiste più, perché ha venduto tutti i brevetti alla Sony. Era molto più all’avangardia rispetto alla precedente, con una risoluzione migliore e la possibilità di operare con uno zoom ottico ben più potente. Quando mi iscrissi alla Scuola Romana di Fotografia fu il tempo della mia prima reflex: una Canon 400d, una piccola entry level, però con un’ottica grandangolare molto costosa: ci feci tante belle foto che ancora oggi sono sul mio portfolio, sia ritratti che reportage. Sul finire del mio percorso di formazione acquistai una macchina professionale, la Canon 5d mark II, che uso ancora oggi come macchina di scorta. Adesso scatto con una Canon 5ds, una bella macchina da 50 miloni di pixel: tanta strada se pensiamo che ero partito con la vecchia analogica di mio padre e che la prima Kodak, acquistata 16 anni fa, ne aveva appena 1.3 milioni, di pixel.

Foto di Paolo Lafratta

Cos’è che ti interessa, realmente, di un’immagine? Intendo dire, ciò su cui ti concentri di più durante uno scatto e che costituisce per te il punto fondamentale nella costruzione di una tua foto.

La cosa che mi interessa di più in un’immagine è la luce. Può sembrare banale, detto da un fotografo, però davverò è l’elemento centrale del mio lavoro. Rendermi conto di aver creato una buona luce, dopo una lunga e attenta fase di preparazione, mi dà soddisfazione, sia nell’immediato che in fase di scatto. Voglio sempre avere una grande luce, perché questo mi permette di poter scattare senza dover fare poi miracoli in postproduzione. Una foto che mi soddisfa ha una commistione di luci naturali e artificiali. È bella, coerente, moderna. Anche per questo non scatto praticamente mai solo con luce naturale, mi piace intervenire sull’illuminazione delle mie foto. Per me la luce è tutto; un fotografo deve scrivere, deve raccontare, attraverso la luce.

Foto di Paolo Lafratta

A volte mi incuriosisce pensare a cosa avrebbero fatto nella loro vita le persone che incontro, se per qualche motivo non avesso preso il percorso che le ha portate sin dove sono oggi. Io ad esempio penso sempre che se non avessi fatto il giornalista mi sarei dedicato a una professione “molto manuale”, avrei lavorato in cucina, fatto il magazziniere, magari sarei un pastore. Tu cosa pensi saresti potuto diventare, se non avessi fatto il fotografo?

Credo avrei preso una strada semplice, sicuramente un lavoro dinamico, visto che non mi piace rimanere dietro una scrivania. Magari avrei fatto lo psicologo, dopo la scuola superiore mi iscrissi a economia, ma se potessi tornare indietro avrei studiato psicologia. Poi magari sarei comunque finito a fare il fotografo, però è un ambito che mi ha sempre interessato, quello cognitivo. In generale comunque non amo guardarmi indietro, per me il passato è qualcosa di immodificabile e dunque tanto vale la pena non soffermarcisi troppo. Forse anche per questo non ho grossi rimpianti nella mia vita, cerco di non sottolineare le esperienze negative e di guardare sempre avanti, di tenere con me solo i ricordi belli. Se dovessi proprio cancellare qualcosa dal mio percorso, direi che sarebbe la creazione di una società in Italia. Aprii con due amici uno studio fotografico e alla fine si è rivelato essere soltanto una perdita di tempo e soldi, seppur un’esperienza formativa importante.

Foto di Paolo Lafratta

C’è un fotografo che nella tua carriera, magari agli inizi, ti ha ispirato, che hai tenuto come riferimento e che consideri in qualche modo legato anche al tuo modo di scattare?

Devo dire che non c’è un fotografo che nel tempo mi abbia realmente ispirato, nemmeno oggi, forse perché mi piace molto muovermi fra i generi, cambiare stile, adattarmi alle situazioni, mentre i modelli di riferimento sono per loro stessa natura molto più statici. Posso però dire che adoro guardare le foto publicitarie, ci trovo spesso tante cose da imparare, soprattutto in quelle dei grandi brand. C’è un’agenzia di advertising americana, Stockland Martel, che mi piace molto. Ogni volta che ho bisogno di vedere belle immagini, di studiare una luce, di ragionare su un’idea, di confrontarmi con cose ben fatte, vado a dare un’occhiata sulla loro pagina. Non mi piacciono tutti i loro fotografi, ma sono tante le immagini di questa agenzia che mi permettono di capire qualcosa in più sulla luce e sulla ricerca del bello, che mi fanno maturare dal punto di vista della visione.

Foto di Paolo Lafratta

L’avvento della tecnologia e anche una diversa concezione del come si intende e si produce un’immagine nella società contemporanea ha moltiplicato, di fatto, le persone che amano scattare fotografie e, fra queste, quelle che, a vario titolo, si considerano “fotografi”. Per te qual è la differenza fra un fotografo professionista e un amatore e quando ti sei detto per la prima volta, “adesso sono un fotografo”?

Un professionista ha la tendenza a scattare solo quando lavora. Io scatto per me quando sono in vacanza, e in quei casi faccio foto paesaggistiche, che in linea generale non fanno parte del mio ritmo professionale. Un’altra grande differenza riguarda il tempo. Un professionista prima di scattare deve per forza di cose avere un tempo di organizzazione, mentre un non professionista si lascia andare più al caso, esce di casa e scatta, dell’immagine prende solo il lato divertente. Un professionista invece non può sbagliare, deve consegnare un lavoro e dunque è quasi obbligato a mettere da parte l’aspetto ludico e romantico, per lasciare spazio all’ambito tecnico, che è determinante al fine di costruire una buona foto.
Prima di definirmi un “fotografo” ho avuto bisogno di molto tempo. Ho sempre pensato di dover tenere un profilo molto basso, d’altronde già 12 anni fa la concorrenza era tanta, e con più cultura e più preparazione rispetto a tanti “fotografi” di oggi. Per questo motivo ci ho messo molto a definirmi “fotografo”. Poi ho deciso che se volevo davvero seguire questa strada, allora dovevo comportarmi e relazionarmi come un professionista, perché se non credevo io nelle mie capacità professionali, allora non lo avrebbero fatto neanche gli altri. Le competenze tecniche d’altronde le avevo tutte. Dopo la Scuola di Fotografia mi sono lanciato in maniera determinata lungo questo percorso, mi sono buttato e ci sono riuscito. Eppure non ho mai smesso di studiare, di aggiornarmi: la ritengo una cosa fondamentale.

Foto di Paolo Lafratta

Tu ami molto la fotografia di ritratto, è senza dubbio un genere centrale nel tuo percorso creativo e anche una tipologia di immagine sulla quale sperimenti molto, utilizzando tecniche molto personali e una grande ricerca. Ci spieghi da dove nasce questo lavoro e ci racconti il filo rosso che in qualche modo percorre tutti i tuoi ritratti?

Io adoro fare fotografie di ritratto, mi piace perché attraverso questa tipologia di immagine mi sembra di poter aggiungere un piccolo pezzo alla mia collezione, è quasi una cosa maniacale: adoro poter avere nel mio archivio un altro viso, un’altra caratteristica fisica. Nella fotografia di ritratto poi io riesco a sperimentare. Si tratta di uno degli ambiti nei quali scatto anche senza commissione. Mi capita di fare dei tritratti a persone che trovo interessanti, è come aggiungere un tassello alla mia ricerca stilistica. La fotografia di ritratto è un genere in cui posso provare a lavorare su tecniche diverse, lanciarmi in esperimenti, usare luci più ardite: tutte cose che non posso fare in lavori commissionati.

Foto di Paolo Lafratta

Una domanda semplice: qual è per te la funzione della fotografia nel nostro tempo?

La funzione principale della fotografia è quella di lasciare un ricordo, di narrare il presente per i posteri, affinché in futuro si abbia un’idea, anche romantica, di quello che stiamo vivendo oggi. È fantastico guardare foto di epoche passate, sembra tutto più bello, più gradevole. A volte, quando guardo immagini scattate venti, trenta, cinquanta anni fa, penso che mi sarebbe piaciuto vivere negli anni ’70, ad esempio, ed è un pensiero che si innesca proprio attraverso la visione di un’immagine: per questo dico che la funzione della fotografia è quella di narrare il presente. Mi auguro che le foto dei nostri tempi possano lasciare negli anni a venire le stesse sensazioni a chi le guarderà nel futuro. Bisogna anche dire che oggi c’è un abuso delle immagini, ce ne sono troppe e questa bulimia a volte provoca quasi una sensazione di disgusto rispetto all’idea stessa dell’immortalare un momento. Per questo credo sia importante scattare meno e scattare meglio. Supereranno la prova del tempo soltano le foto che vengono stampate, non quelle gettate nel web, che invece già adesso si perdono nel giro di qualche giorno.

Foto di Paolo Lafratta

Si parla molto di postproduzione nella fotografia contemporanea, c’è quasi un dibattito, ormai annoso, fra i puristi, che vedono Photoshop quasi come la negazione della fotografia, e quanti invece trovano importante la possibilità di intervenire sullo scatto. La realtà dei fatti dice che oggi nessun fotografo professionista, qualunque sia la sua posizione pubblica, dunque purista o meno,  può realmente affermare di non utilizzare la postproduzione. Al massimo ci sono diverse maniera di approcciarsi al mezzo, ma, dal mio punto di vista, ho sempre pensato che, maneggiata con cura, la postproduzione sia uno strumento utile e efficace. Tu da che parte stai?

La postproduzione ti lascia sbalordito quando sei all’inizio della tua carriera, quando ti accorgi di poter prendere una foto anche scattata molto male e di poterla correggere, magari senza farla diventare una grande foto, ma comunque migliorandola, attraverso l’utilizzo di Photoshop. Trovo che oggi affidarsi alla postproduzione significhi usare uno strumento molto potente, che va gestito con raffinatezza ed equilibrio. Elaborare un’immagine, anche profondamente, senza far notare l’intervento, senza stravolgerne il messaggio e la luce costruiti in fase di scatto, la ritengo una cosa accettabile. Io provo sempre a scattare in maniera impeccabile, per avere un file già quasi pronto: non mi piace stare al computer a postprodurre foto, ovviamente lo faccio, ma preferisco concentrarmi di più sullo scatto, anche perché il tempo passato su Photoshop è tempo che sottraggo ad altri, nuovi, scatti. Condivido comunque l’utilizzo dei programmi di postproduzione, soprattutto per quanto riguarda la fotografia commerciale. In ambiti giornalistici e reportagistici, la postproduzione invece ritengo debba essere meno invasiva, ma può comunque rivelarsi uno strumento importante. Dal mio punto di vista la postproduzione è centrale anche perché credo possa aprire nuove frontiere stilistiche, nuovi approcci artistici: ci permette di creare immagini sempre più perfette e moderne.