La morte di Bauman ci lascia orfani di un pensiero straordinario

la morte di Bauman

di Federico Quadrelli

All’età di 91 anni si è spento uno dei più importanti e influenti pensatori contemporanei: Zygmunt Bauman. Un maestro, un gigante del pensiero sociologico e non solo.
È stato definito dai quotidiani di mezzo mondo come il teorico della società liquida, ma è stato molto di più di questo. Bauman è stato un pensatore dotato di una straordinaria capacità critica. Una fonte inesauribile di stimoli per molte studiose e molti studiosi in differenti campi del sapere: antropologia, sociologia, filosofia e scienza politica. In molti lo definiscono un sociologo, altri filosofo. Era entrambe le cose e oltre. Certe etichette stanno troppo strette a personalità di questo tipo.
Bauman aveva una capacità di “immaginare” unica e un poderoso sguardo critico sulla realtà. Non c’è persona in questo ultimo periodo che sia stata tanto capace di osservare, analizzare e interpretare i fenomeni sociali come lui. E possiamo dirlo senza avere il timore di sembrare esagerati. Ci mancherà questa coraggiosa e dirompente intelligenza, perché in tanti decenni di produzione accademica e scientifica ci ha offerto suggestioni uniche spaziando senza particolare difficoltà dallo studio dei totalitarismi al tema dell’identità, dalla crisi degli Stati nazionali alla modernità, dal capitalismo alla società dei consumi, dalla comunicazione alle forme di controllo sociale, dalla globalizzazione ai migranti, dai sistemi politici a quelli etici.

Per chi non ha letto i suoi numerosi libri, il concetto di “liquidità” è quello che lo caratterizza, perché è stato un sociologo e filosofo “pop”, sempre ospite di qualche manifestazione culturale o politica, interpellato per dare un parere su tutto ciò che ci tormentava. E non si è mai tirato indietro, non si è mai arroccato in una torre d’avorio. Ma Bauman è stato molto di più e non si può non ricordarlo: figlio di ebrei polacchi, fuggì durante l’occupazione nazista della Polonia e combatté contro i totalitarismi. Studiò Gramsci e Simmel, visse a Tel Aviv e poi a Londra. Fu simbolo, in gioventù, dell’intellettuale che si oppone al potere. Un esempio di indipendenza e coraggio, appunto. I suoi primi contributi furono dedicati al lavoro e all’economia, ai movimenti sociali e alle disuguaglianze. Un patrimonio che oggi appare offuscato dalla fama raggiunta dallo studio della modernità e della post-modernità.
Il suo è stato un approccio sempre pro-attivo. Mai distaccato dal mondo. Ha provato a spronarci per cambiare questa realtà. Ci ha messo in guardia dai pericoli del benessere e del consumismo. Ha evidenziato le tante, troppe, incoerenze. In un suo libro intitolato “l’etica in un mondo di consumatori” c’è un passaggio che è come un monito e un’accusa: “nella fitta rete mondiale di interdipendenza globale, non possiamo essere certi della nostra innocenza morale”.
In questo ultimo periodo si è era interessato molto alla questione dei richiedenti asilo, di chi fugge dalla guerra e dall’oppressione. Anche, o soprattutto, ci ha spiegato, per nostre responsabilità.
Proprio qualche mese fa aveva rilasciato la sua ultima intervista ad Al Jazeera, parlando, con la sua solita magnifica e unica capacità di guardare al particolare senza perdere di vista niente del generale, della paura che ci affligge e del significato dell’accoglienza.
Lo ricordiamo con questo spezzone di intervista, montata su una rappresentazione animata della tragedia dei milioni di profughi in tutto il mondo.