Dopoguerra: nella DDR fughe ed espulsioni vennero messe a tacere

Photo by Metropolico.org©
Heimatvertriebene photo
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di Letizia Chetta

Appena un anno fa veniva alla luce il libro “Die Mutter meiner Mutter” (in italiano, letteralmente, “La madre di mia madre”) di Sabine Rennefanz, giornalista della Berliner Zeitung, il cui talento letterario si era già lasciato conoscere nel 2013 grazie al suo primo bestseller “Eisenkinder”.
Come quest’ultimo, anche “Die Mutter meiner Mutter” testimonia un forte interesse verso temi di natura sociale e storica da parte dell’autrice. Entrambi i romanzi, infatti, raccontano di vite intrecciatesi durante il primo e il secondo dopoguerra in una Germania divisa dal Muro e ancora in via di ricostruzione, sul piano fisico e psicologico.
In “Die Mutter meiner Mutter” la materia grezza della vicenda deriva da episodi del vissuto familiare della scrittrice che, una volta rielaborati, vanno a costituire un’opera di finzione di forte impatto e grande attualità. L’argomento principale è infatti quello del silenzio su temi come la fuga o l’espulsione di determinati gruppi etnici dell’Europa centro-orientale verso la Germania, e, in particolare, verso l’Ostdeutschland. La domanda fondamentale è la seguente: quali sono le ragioni di questo silenzio? Perché non si parla mai di coloro che dall’est arrivarono, a termine della guerra, in zone come il Brandeburgo, per poi rimanere e fondare una vita? Perché il rapporto tra Germania e Paesi confinanti (in questo caso la Polonia), tradottosi poi in una rete di spostamenti, incontri, separazioni, relazioni tra persone di origine diversa, è diventato un tabù?

Rispondere a questa serie di interrogativi significa in primo luogo cercare un senso a ciò che proprio in quelle regioni della Germania sta prendendo ora piede a livello politico. Ovvero, episodi di razzismo e di violenza, fomentati da manifestanti estremisti di Pegida o di Afd, partito euroscettico e conservatore di recentissima formazione. Rispondere a queste domande si traduce così, da una parte, in un’operazione di pura ricerca (analisi storica, d’archivio) e, dall’altra, in un’azione concreta sul presente. Il libro della Rennefanz, infatti, nonostante prenda la forma di un romanzo, costituisce un vero e proprio specchio critico sulle negatività del nostro presente, sulle ferite ancora da curare e su “germi” potenzialmente pericolosi.
La storia è quella di Anna, quattordicenne costretta all’emigrazione dopo la fine della seconda guerra mondiale, orfana di madre e il cui padre è stato da tempo catturato dall’esercito russo.
Come si può leggere da un articolo apparso il 16 maggio di quest’anno sulla Berliner Zeitung, di grande rilevanza sono stati i racconti offerti alla Rennefanz da sua nonna, lei stessa profuga tedesca di origine polacche.
Rennefanz spiega come sia importante aprire un dibattito e fare luce su punti irrisolti della storia di emigrazione e immigrazione in Germania, perché è spesso proprio la rimozione di tali traumi la causa principale dell’odio e dell’intolleranza verso coloro che ora si trovano a essere i tanti refugees, Flüchtlinge, profughi. Il fatto che proprio l’est della Germania sia particolarmente colpito da questi inni alla violenza e al razzismo è un’ulteriore prova di ciò che autori come Sabine Bode continuano a rimarcare: laddove in passato si verificarono sradicamenti, fughe, migrazioni per le quali quasi provare vergogna, ora troviamo il più alto numero di sostenitori di partiti di destra radicale o estrema. Sono proprio i più anziani coloro che più rabbiosamente sembrano rifiutare l’arrivo di profughi e stranieri, quasi nell’intento di nascondere una coda di paglia pronta a prendere fuoco. Ma per questa gente, certo, si è sempre preferito parlare di Umsiedler, persone cioè semplicemente trasferitesi qui per lavoro o necessità economiche. Una parola ben meno pesante di altre, quali “profugo”, “esiliato”, “cacciato dalla propria patria” (in tedesco, Vetriebener).

Ma perché dunque questo silenzio?
Rennefanz sembra ritrovarne la causa nel peso di un altro dramma, ben più conosciuto agli occhi di tutti: l’olocausto e il nazismo. Come potersi lamentare e denunciare le barbarie (migliaia di persone uccise, maltrattate, violentate) commesse dagli “amici” russi durante il trasferimento di milioni di persone di etnia tedesca verso ovest, quando la stessa Germania si era da poco macchiata di un crimine tanto grande?
Per non parlare poi della credibilità che l’Unione Sovietica avrebbe perso, lei, modello di riferimento della Germania Est.
Alla fine, infatti, fu proprio la DDR a prendersi carico della maggior parte dei cosiddetti Heimatvertriebene, cioè coloro che espatriarono a forza dall’Europa centro-orientale. Più di quattro milioni di profughi di etnia tedesca arrivarono in Germania dopo che i vincitori del secondo conflitto mondiale ebbero ridisegnato i confini dell’Europa orientale e le loro zone d’influenza. Tuttavia, tutti questi numeri, queste vite, queste testimonianze, vennero ben presto messi a tacere e sparirono completamente dalle statistiche.
Avere una famiglia di origini polacche, ad esempio, nel secondo dopoguerra tedesco significava avere buone ragioni per cui vergognarsi e volere celare a tutti i costi quel passato tanto penoso. Rennefanz stessa evoca l’esperienza della nonna e di sua madre, che a malapena riuscirono mai a parlare della propria storia e riscoprire la propria terra. Dopotutto, durante l’era del Muro non era nemmeno possibile creare associazioni o circoli di ritrovo per i profughi: anche il minimo tentativo non solo era malvisto e sentito come revanscista, ma addirittura vietato. Il passato venne dunque violentemente rimosso, e un’intera generazione, ora in pensione, sottoposta a uno stress diffuso, senso di insicurezza, “paure erranti”, per citare la Bode (in tedesco, Vagabundierende Ängste) . Ma il passato non è morto, né la sua ombra è svanita davvero. È lì che incombe ancora con forza sul presente: nelle ansie, per esempio, rispetto all’arrivo dei nuovi Vetriebene. Come se in molti “tedeschi” serpeggiasse la paura di perdere di nuovo questa patria tanto sudata, come se quegli stranieri tanto minacciosi rappresentassero la reincarnazione spaventosa del loro sradicamento.
Anche il Teeologo Joachim Süss, che insieme a Michael Schneider ha pubblicato “Nebelkinder”, libro teso a ripercorrere storie di profughi nell’est e ovest della Germania, sembra concordare con Sabine Bode nell’individuare la causa del contemporaneo orgoglio razzista proprio nell’ignoranza di questo pezzo di storia tedesca. Certo, non ogni storia rimossa è stimolo alla violenza, tuttavia è anche vero che questa avrà più possibilità di produrre sul lungo periodo atteggiamenti di durezza, indifferenza verso il prossimo, l’altro, il “diverso”.