“Chi focu a mari c’è stasira”. Lampedusa si prende Berlino

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Screenshot © Fuocoammare

di Mattia Grigolo

Fuocoammare vince l’Orso D’Oro alla Berlinale 2016.

La quotidianità è una sola, ma Gianfranco Rosi la divide in due, la smussa agli occhi di chi guarda, ma nella realtà l’affetta e la separa.
L’ordinario a Lampedusa vuol dire la vita di una popolazione che è italiana, ma che è geograficamente più vicina all’Africa che alla nostra penisola, vuol dire sentirsi parte di un qualcosa che è posizionato in una dimensione diversa, come spesso è lontano ciò che crediamo vicino.

L’ordinario a Lampedusa è una canzone popolare nata sull’isola, ma presa dal mare. Un pezzo nato durante i bombardamenti del giugno del 1943, ove una nave militare italiana prese fuoco. Dall’isola i paesani osservavano la notte accendersi di un bagliore continuo e contrastato, esclamando: “chi focu a mari c’è stasira.” Da settant’anni questa canzone è un inno, di quelli che vanno a mare per pescare.

È qui che Rosi raccoglie e risemina nel suo documentario, perché è proprio di questo che parlano i personaggi nelle quasi due ore presentate al Festival di Berlino. Talvolta senza pronunciare nemmeno una parola, altre spiegandosi con l’innocenza di un bambino con un occhio pigro e una fionda tra le mani. Oppure chiarendo lati oscuri con consapevolezza, quella di un dottore che con parole rotte da ricordi indicibilmente terribili, racconta ciò che viene salvato dal mare e ciò che non si riesce a riportare a riva, ma che rimane lì, come un peso sull’anima di quegli isolani troppo lontani dalle coste della Sicilia. È questo che fanno, accolgono, è una loro prerogativa, è ciò che gli è stato insegnato fin da bambini, a diventare pescatori a prendere ciò che il mare gli dona.
Ma da tanto tempo quello che le onde portano a riva è molto di più che il pescato del giorno.

È una poesia Fuocoammare, forte di essere viva e vera. Sono versi che diventano lamenti e lamenti che diventano canzoni, come quelle immagini continue e lente di un mare in tempesta, di un elicottero che si alza in volo per andare in cerca dei dispersi, dei volontari e delle forze dell’ordine che raccolgo donne, bambini, uomini disidratati ma che ce l’hanno fatta, esseri umani che sono arrivati, ma cadaveri, schiacciati da altri esseri umani, dispersi in un universo infinito fatto da acqua salata e sole cocente e pioggia torrenziale, vento freddo, notti buie, stipati in scafi come bestie, a contendersi la prima e la seconda classe con il denaro guadagnato in una vita intera, a proteggere i propri cari seppelliti nella terza classe. L’inferno, il buio, la puzza del gasolio che quando si sperde e si mischia all’acqua, brucia le carni e i polmoni.

Questo è Fuocoammare.

Tutto quello che abbiamo scritto e detto e pontificato in questo articolo potrebbe sembrare banale, perché Lampedusa da oltre ventuno anni accoglie nei suoi mari cadaveri e esseri umani. Era metà ottobre del 1992. Oltre ventuno anni. Anche per questo, forse, Fuocoammare ha vinto L’Orso D’Oro alla Berlinale 2016.

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Gianfranco Rosi