IOSONOUNCANE: Non esiste essere umano che non sia un migrante

argentique-001 Silvia Cesari
© Silvia Ceari

Questo articolo è apparso in precedenza su Soundwall

di Mattia Grigolo

C’è freddo a Berlino, però non entra nelle ossa. Non resta lì, fuori. Arriva e se ne va ciclicamente, portato da sbuffi di vento. Mi fermo a pisciare ad un albero appena dentro il Volkspark am Weinbergsweg, sulla Brunnenstraße. Da qui posso vedere l’entrata dell’ACUD Macht Neun, un centro polivante che racchiude un cinema, un teatro, un club, studi e spazi artistici.

Il concerto di stasera è sold out già da una settimana.

Zip.

Entriamo.

L’ambiente è semibuio, è basso. L’aria è satura delle molte sigarette che il pubblico ha fumato ancora prima dell’esibizione. Fa caldo all’ACUD. Tra la massa compatta di persone addocchio un individuo con un giubbotto pesante, slaccciato. Zip. Mi sembra sia l’unico a non averlo tolto. E’ lo stesso giubbotto che indossa in molte delle sue foto promozionali. Questo individuo si chiama Jacopo Incani, pseudonimo di Iosonouncane ed ora salirà sul palco, si sfilerà quell’indumento inappropriato all’ambiente, si curverà sulle sue macchine e lascerà che gli otto minuti di ‘Tanca’ sfilaccino le nostre viscere e le spargano lì, intorno ai movimenti che divengono sincopati nel momento in cui non sono più singoli, ma di tutti. Ora quei lamenti aborigeni daranno densità alle nostre radici, alla ricerca spasmodica di un esoterismo che ci renderà nudi. Mi fa male la pancia, per quattrocentottanta secondi. Poi basta.

Insomma, tu non sei un cane.

No, sono un progetto che è nato nel 2008. Fino al Natale 2007 ho sempre suonato in una band che si chiama Adharma, poi per una serie di ragioni il gruppo si è sciolto e mi sono trovato solo, musicalmente parlando. Mi sono dovuto dare delle scadenze, ho dovuto decidere se continuare da solo oppure smettere.

Già dall’inizio del 2008 ho iniziato a registrare del materiale nuovo, dandomi un assetto completamente diverso rispetto a quello che avevo con la band. Per farlo mi sono affidato alla chitarra acustica, che non avevo mai suonato, ad un loop-machine e ad un campionatore che avevo comprato mesi prima pensando fosse tutta un’altra cosa. Iosonouncane è nato così, con un’idea molto chiara dei brani che sarebbero poi apparsi sul disco, quantomeno come insieme di elementi da abbinare. Oltre a questo avevo la necessità di partire il prima possibile a fare dei concerti, cosa che non era mai avvenuta con gli Adharma. Ci siamo esibiti raramente dal vivo, questo per ragioni unicamente legate all’organizzazione e all’economia. Eravamo molto giovani e lavoravamo tutti, chi nei call center e chi in fabbrica, era già piuttosto difficile ritagliarsi tre sere alla settimana per fare le prove. Quando ho deciso di lavorare da solo, ho capito che dovevo fare qualcosa che mi permettesse di buttare tutto in un trolley, salire sul primo treno e andare a fare un concerto senza cachet. Ho fatto di necessità virtù. La parte iniziale del progetto è stata viziata da questi fattori.

Viziata anche a livello musicale?

In una qualche misura sì, anche se non voglio connotare negativamente questa cosa. La prima parte del progetto era frutto di una necessità di natura contingente. Arrivavo da una band in cui tutti suonavamo tante cose. Eravamo fondamentalmente un gruppo da studio, quindi non ci ponevamo il problema della fattibilità live. Con Iosonouncane mi sono dovuto imporre dei limiti. Quindi sì, anche dal punto di vista strettamente musicale c’è stata un’influenza.

Che genere facevate con gli Adharma?

A livello generale facevamo rock. I nostri ascolti andavano da band come Radiohead, passando per il post rock e arrivando a quelle che erano le nostre passioni principali, ovvero sonorità di metà anni sessanta e un certo tipo di progressive anni settanta. Diciamo che quello che facevamo era un ibrido di tutto questo, con l’aggiunta del fatto che stavo iniziando a scrivere i testi con una certa consapevolezza.

È per capire che cosa ti sei portato dietro da quell’esperienza “dentro” Iosonouncane.

Tantissimo. Quando stavo stendendo gli arrangiamenti di ‘Die’ facevo sentire agli amici il materiale su cui stavamo lavorando, ridevamo perché le parti che stavo facendo per le tastiere sembravano quelle che avrebbe fatto Riccardo per Adharma e i beat quelli che avrebbe fatto Simone. Avendo suonato con loro per dieci anni ne ho interiorizzato anche l’approccio, quindi penso che ‘Die’ non sia un disco di Iosonouncane, ma il disco che gli Adharma avrebbero fatto qualora non si fossero sciolti.

Ti sei portato dietro loro.

In una qualche misura sì.

A proposito di ‘Die’, immagino tu sappia meglio di me che in sardo significa giorno, in tedesco significa lei, in inglese morire.

Certo. Nel momento in cui ho pensato a quale titolo avrei potuto scegliere, sono arrivato alla parola scritta DIE partendo dal suo significa in sardo, poi mi sono reso conto che in tedesco vuol dire LEI e in inglese invece significa MORIRE. Quando ho realizzato questa cosa, ho esultato, perché il giorno, la morte e una figura femminile vanno ad evocare quasi totalmente gli elementi principali della narrazione del disco. È stata una scelta consapevole quella di andare a cercare una pluralità.

Perché l’inizio è stato il giorno?

Quel che sapevo fin dal principio era che non volevo un titolo estrapolato dai testi e che non doveva essere una parola italiana. Cercavo una parola brevissima, che potesse diventare una sigla che potesse abbracciare, senza soffocarle, tutte le sfumature del disco, sia per quanto riguarda il discorso narrativo che quello sonoro. Ho scartato tantissime ipotesi, poi mia sorella mi ha consigliato di cercare tra le parole sarde che si rifanno ai mesi e ai giorni dell’anno derivati dalla cultura contadina, ma nessuno si prestava. Infine mi ha suggerito semplicemente la parola Die. Per alcune settimane ho scritto e riscritto questa parola sui libri che leggevo, sulle varie agende che possiedo, così da prenderne le misure. Sono uno che ha bisogno di vedere scritte le parole. Alla fine, dopo aver scelto la copertina, ho avuto la certezza che quello era il titolo perfetto. Sapevo anche che sulla copertina avrei voluto che il titolo fosse scritto molto in grande e il mio nome molto in piccolo e, quindi, quando abbiamo fatto la prima prova di quello che sarebbe stato il logo, chiamiamolo così, non ho avuto più nessun dubbio.

Sono passati tanti anni da ‘La Macarena su Roma’, il tuo primo disco, che cosa è cambiato?

Onestamente ti dico che sono passati tanti anni perché fino all’autunno del 2012 io sono sempre stato in giro a suonare e sono uno di quei musicisti che fin quando non si ferma, fa molta fatica a lavorare in modo strutturato e organico. Riesco ad appuntare delle bozze e l’ho fatto fino all’autunno di quell’anno. Prima di allora non ho potuto impegnarmi totalmente. Oltre a questo, fin dal principio avevo il desiderio di portare avanti il materiale che stavo appuntando e quel materiale mi stava facendo andare molto lontano da quelle che erano le forme del primo disco. Per arrivare ad un risultato differente ci vuole un metodo differente e questo richiede del tempo.
Avevo anche voglia di tornare a casa, perché era da tanto tempo che ero in giro e mi ero stancato. Ho detto: Torno a casa, riprendo tutto il materiale che ho appuntato e ci metto la testa.

Sono stato un anno in Sardegna.

Ho selezionato quelli che poi sono diventati i brani del disco e ho iniziato a lavorare sugli arrangiamenti. Alla fine mi sono reso conto che avevo in mano una quantità di materiale che non stavo più riuscendo a gestire, era veramente troppo. Avevo sessioni Ableton di un singolo pezzo che accorpavano anche centocinquanta tracce, avevo quattro/cinque sessioni di arrangiamento per ogni pezzo, venti/trenta synth appuntati. Dovevo avere un alter ego, un produttore artistico molto diverso da me, che mi desse una struttura. Non ero soddisfatto di molti suoni, alcuni dei quali non riuscivo ad ottenerli, perché non avevo la strumentazione e le competenze necessarie. Volevo degli organi veri, volevo un pianoforte vero, una sezione fiati vera,  delle basse molto grosse che non riuscivo ad ottenere. Ero in Sardegna, dove non ho la strumentazione necessaria, quindi dopo un anno sono tornato a Bologna e mi sono infilato in studio con Bruno Germano, che è il fonico e produttore artistico del disco e, per un altro anno abbiamo lavorato insieme sui brani, suono per suono, cercando di ottenere il massimo risultato a partire fortunatamente da un’idea molto chiara. La lunga gestazione del disco ha queste ragioni.

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© Silvia Cesari

Hai ottenuto davvero quello che desideravi?

Per fortuna sì e questa cosa ogni tanto mi sorprende, perché comunque quando covi un’idea per anni è anche possibile che quest’idea venga persa di vista. Per la testardaggine mia e di Bruno non è successo.

Poco fa hai detto: Avevo voglia di tornare a casa. Quindi casa tua è la Sardegna, non è Bologna, nonostante tu viva da molti anni nel capoluogo emiliano.

Sì, è la Sardegna. In questo momento vivo a Bologna, però per casa intendo un luogo spirituale, piuttosto che un luogo fisico e quindi quando dico casa intendo la Sardegna.

Conosco molti sardi lontani da casa e noto sempre che la Sardegna la percepiscono come un luogo in qualche modo astratto rispetto al resto del pianeta.

È una cosa che puoi trovare molto facilmente anche in tutta la letteratura sarda, probabilmente in parte perché si tratta di un’isola vera e non a mezz’ora dal continente. È un’isola che quando ti ci devi spostare è un bell’impegno. Non lo decidi da un giorno con l’altro. Questo gioca un ruolo importante. E poi c’è la storia e la preistoria sarda che è tangibile. Un’altra cosa, la bassissima densità abitativa e il paesaggio sardo fanno si che gli spazi aperti siano sconfinati e che ricordino continuamente a chi ci vive e a chi ci è vissuto qual è il rapporto che si instaura con l’isola stessa. Sì, è un rapporto astratto, come hai detto tu.

Dove sei cresciuto tu?

In un piccolo paese che sta sulla costa sud-occidentale, Buggerru.

Quanto c’è di quel piccolo paese nei tuoi album e quanto c’è di Bologna?

Del posto nel quale sono cresciuto e delle persone con le quali sono cresciuto c’è tantissimo, perché quel posto e quelle persone hanno formato in primo luogo il mio sguardo e, in ultima analisi, il mio rapporto istintivo con ciò che vedo, quindi con la realtà. Diciamo che quello è il lessico di base. C’è sempre tanto della Sardegna, la mia relazione con la vita e con la morte è determinata da quel paesaggio, da quei luoghi e da quelle persone.

C’è anche tanto di Bologna, però. Perché è proprio questa città che mi ha permesso di misurare uno sguardo che va “al di fuori”. Uno sguardo su altri paesaggi, affinandosi naturalmente.

Se io fossi rimasto in Sardegna, Iosonouncane non sarebbe mai esistito.

Sono due luoghi molto differenti, è chiaro.

Radicalmente diversi.

E questo va a mischiare le carte in tavola.

Il paese dove sono cresciuto non ha nemmeno mille abitanti ed è in un punto della costa praticamente disabitato. Il centro più grande, che ha trentamila abitanti, dista più o meno un’ora qualsiasi strada tu decida di prendere, sia dalla costa che dall’interno. Direi l’esatto contrario di Bologna.

È sul mare, vero?

Sì, la casa più distante dal mare è ad un chilometro e la più vicina a venti metri.

Sarò banale dicendoti che l’elemento del mare è molto importante nei tuoi testi.

Assolutamente. È fondamentale. Sono cresciuto in una casa che mi permetteva di vedere, di fronte a me, in linea d’aria a qualche centinaio di metri, il mare. L’ho visto ogni giorno per molti anni della mia vita e appena posso torno a guardarlo. Fa parte del lessico del mio inconscio.

Hai mai vissuto fuori dall’Italia?

No.

Ci vivresti?

Probabilmente sì, però dovrei avere delle motivazioni per farlo. Diciamo che sono abbastanza a disagio nelle grosse città. Quindi non mi è mai capito di sentire istintivamente che potrei vivere in una città fuori dall’Italia, a parte ora a Berlino. Per la prima volta in vita mia mi sono sentito a mio agio e ho pensato: Potrei starci per qualche mese.

Potrei viverci lo penso ogni volta che torno in Sardegna, ma sai, è sempre un potrei.

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© Silvia Cesari

Mi attacco, un’altra cosa che si sente molto dai tuoi testi e dal concept di ‘Die’ è questa sorta di cronaca dell’immigrato.

Sì, ho avuto modo di ragionare su questa cosa dopo l’uscita di ‘Die’, perché, per quanto non fosse assolutamente nelle mie intenzioni fare un disco in cui i miei protagonisti fossero dei migranti, non avevo pensato a nulla. Volevo fossero semplicemente l’uomo con la u maiuscola e la donna con la d maiuscola. Se ci pensi sono due pretesti narrativi, due polarizzazioni arbitrarie all’intero del racconto. Voglio dire, sono due strumenti. Dopo l’uscita del disco, molti di coloro che l’hanno ascoltato hanno trovato una certa attualità in questo racconto archetipico e arcaico, spogliato di tutte le connotazioni storiche e geografiche.

Alla fine ci ho ragionato e sono arrivato alla conclusione che non esiste un essere umano che non sia un migrante. Quindi raccontare la storia di un uomo è raccontare la storia di un’immigrazione. Per me inizia e finisce il discorso in questo modo, anche dal punto di vista etico. Quindi sì, ogni uomo è un migrante. Negare questo è negare la complessità della realtà, è un’operazione fascista che giustifica tutte le barbarie che abbiamo davanti agli occhi.

Ogni uomo è un migrante. Lo è anche colui che è nato, vissuto e morto nel proprio paese di origine?

Certo.

Perché lo è?

Perché la sua è una condizione imperitura e insoluta nel medesimo istante e lo è per la sua stessa condizione esistenziale. Migrare non vuol dire semplicemente spostarsi da un paese all’altro. Se lo si vede così si giustifica il concetto di nazione e il concetto di confine, con tutto quello che comporta.

Però nell’effettività i confini esistono ed esistono anche le nazioni.

Certo, assolutamente, però non è un mio problema nel momento in cui faccio un disco.

È indubbio che tu sia una persona particolarmente capace a scrivere. I tuoi testi hanno una struttura importante, non sono mai banali. Sei bravo a scrivere, ed è abbastanza chiaro.

Leggo tanto e continuamente. Mi piace scrivere anche se in realtà mi costa una grande fatica. Non mi viene facile fare quello che faccio, mi ci devo mettere. Quello che mi aiuta è l’essere altamente autocritico e questo ha giocato un ruolo fondamentale nella lunga gestazione del disco. Non mi siedo sugli allori e anche questo ha giocato il suo ruolo.

Il processo di scrittura dei testi di ‘Die’ è stato molto particolare, nel senso che ho dovuto fare i conti con la volontà istintiva, emersa con la scrittura delle melodie, di riuscire a mettere in piedi una narrazione con l’utilizzo di un linguaggio estremamente scarno. Ci sono solo due aggettivi nel disco e non sono utilizzati in modo descrittivo. È stato impegnativo riuscire a mostrare senza descrivere ed io, in effetti, volevo solo mostrare. Questo è molto difficile. Mi aiuta molto il fatto che leggo tanto e nel momento in cui ho scritto i testi, per due anni, ho individuato una serie di letture che sentivo sentimentalmente vicine a quello che stava emergendo dai pezzi e su quelle letture ho lavorato a fondo.

Puoi citarne alcune?

La più importante è stata la lettura del ciclo di poesie di Pavese che si chiama “La terra e la morte”. È stata illuminante, ho letto e riletto quei versi ogni notte prima di andare a dormire. Mi sono concentrato sul come lui avesse costruito la sequenza di immagini. A Pavese ci sono arrivato grazie alla mia compagna, io arrivavo da ‘La Macarena su Roma’, un disco prosaico, colmo di virgolettati, parole, testi lunghissimi e descrittivi. Ho dovuto fare i conti con la voglia di cantare un numero smisurato di volte determinate parole, per esempio la parola Sole.

Sapevo fin dal principio che questa parola mi dava una sensazione di luminosità e allo stesso tempo estrema cupezza, quindi ho dovuto indagare e assecondare questa cosa.

Ho lavorato su alcuni romanzi di Hemingway, su ‘Lo Straniero’ di Camus, su Carlo Levi, su un poeta del mio paese, un poeta e minatore che si chiama Manlio Massole, ha circa ottant’anni e ci siamo incontrati diverse volte, fino a diventare amici. Abbiamo discusso a lungo di tante cose. Ho lavorato anche su altri autori sardi, come Salvatore Satta, Sebastiano Satta, Gavino Ledda. Ti ripeto, sono tutti testi che ho scelto sulla base di un rapporto sentimentale che sentivo di avere. Non c’è stata una volontà intellettuale.

Quando ho scritto ‘La Macarena su Roma’ sono partito da quel che volevo dire e quel che volevo dire era frutto sia di quel che stavo facendo in quel momento; l’operatore call center. Vivevo in periferia, ero l’ultimo superstite di un gruppo di amici che dopo il liceo si era trasferito a Bologna. Vivevo una condizione sociale ed esistenziale che mi spingeva verso determinate tematiche. È stata un’analisi, un punto di vista che, una volta chiuso, ha generato un desiderio di spostare il mio punto di osservazione. Questo anche perché mi sono ritrovato trentenne e avevo passato gli ultimi tre anni e mezzo da solo in giro a suonare, in mezzo ad una quantità di persone ignote. Diciamo che cambio le mie letture anche sulla base delle necessità ciclice che ho.

MI viene da pensare che ‘La Macarena su Roma’ e ‘Die’ siano due idee ed esperienze che stanno in compartimenti stagni differenti.

A grandi linee, volendo, potremmo anche dire così, perché io vedo il fare un disco come il fare un film, perché su ogni album si prendono in esame un lessico e un punto di vista differenti. Quindi più che compartimenti stagni li vedo come differenti volumi dello stesso percorso di ricerca. Però sicuramente ci sono dei fili conduttori tra i due dischi, uno di questi sicuramente è il mio sguardo. Il mio rapporto emotivo ed istintivo con la vita e il tema di fondo che alla fine mi ritrovo sempre ad indagare: la morte.

‘La Macarena su Roma’ è una raccolta di quadretti morenti, in ogni pezzo si parla di persone che, in modi differenti, muoiono. Lo stesso tema è portante in ‘Die’, quantomeno il collante narrativo; due personaggi che incontrano nello stesso istante la paura di morire. Lui della propria, quindi il terrore di non poter tornare a riva e non rivedere lei, mentre lei la morte di lui, immaginandosi di vivere il resto della propria vita da sola, quindi già vivendo il possibile momento della dipartita di lui.

Sono queste due cose: il mio sguardo e il tema che tratto sempre.

Perché la morte?

Non lo so. Si potrebbero trovare mille motivazioni eppure nessuna. È sicuramente un evergreen, un argomento sufficientemente ampio ed irrisolvibile. Sarà sempre una questione da indagare. Anzi, per assurdo, la tensione verso la morte è un grande sintomo di vitalità.

Tu indaghi la morte nei tuoi dischi?

A posteriori posso dirlo, nel momento in cui ho scritto ‘Die’ non avevo questa consapevolezza e non la volevo avere. Quando, parlando con Manlio Massole, gli ho raccontato che mi ritrovavo tra le mani quest’uomo in mezzo al mare, pur non sapendo ancora se effettivamente fosse davvero in mezzo al mare, visto che non è detto che lo sia, gli ho rivelato che non sapevo se quest’uomo sarebbe sopravvissuto oppure no e ancora se fosse addirittura già morto, lui mi ha risposto in maniera lapidaria con una semplice frase: è bene che questo non lo sappia nemmeno tu.

È stato sostanzialmente così.

C’è una cosa che ho qui e che ti voglio chiedere: trovo che la parte musicale di Iosonouncane sia completamente distaccata dalla parte vocale di Iosonouncane. Sono due cose opposte, ma nel medesimo istante trovo che funzionino molto bene insieme. Sto dicendo una cazzata?

Canto così perché la mia voce è così. È molto tagliente a livello di frequenze. Uno dei più grandi crucci per i fonici che hanno a che fare con me è riuscire a missarla, perché sta fuori dal mix ed infilarcela è davvero faticoso. Questa cosa si accentua nel momento in cui faccio il live. Diciamo che trattando anche suoni elettronici – anche se quello che faccio non si può definire elettronica – con delle dinamiche elettroniche, il contrasto tra le due cose aumenta, ma non è voluto.

Non può essere altrimenti.

Per essere altrimenti dovrei scaricare un plug in da applicare alle corde vocali.

Ultimo: Sei autarchico?

Sono autarchico istintivamente nel momento in cui inizio a lavorare al materiale nuovo e a scrivere gli arrangiamenti, in quella fase devo stare da solo. Non lo rivendico, quantomeno non se sono sul palco. Sono stato autarchico fino ad adesso per necessità in primo luogo e perché mi andava, per quanto riguarda la prima parte del tour avevo un grande desiderio di sottolinearne la paternità e l’identità che, in qualche modo, ‘La Macarena su Roma’ aveva un po’ annebbiato, non ai miei occhi, ma forse a quelli degli altri. Se avessi i soldi per pagare sessanta musicisti li porterei tutti sul palco. Infatti, non posso dire molto, ma per la seconda parte del tour sul palco saremo in tanti.

Zip.