Unconventional Berlin Diary: risparmiateci il baffetto

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Photo by .Francine.

Mi è capitato di leggere il racconto di un autore poco noto, per non dire esordiente. Nel titolo citava Hitler e lo nominava anche in seguito, senza un vero motivo.

Nessun legame organico con il contenuto, un sermone denso di quel sarcasmo polemico ma al tempo stesso distaccato che i tardoadolescenti distillano mescolando Nietzsche, Savonarola e Bukowski. E il Führer, in questo caso, sfacciatamente usato come espediente in un testo che parlava d’altro, solo per attirare l’attenzione. Il meccanismo è molto semplice, scrivi “Hitler” e sai che genererai una buona dose di curiosità inevitabile. “Hitler e l’arte del pas de deux“, “Hitler e il Britpop”, “Hitler e quella volta che ho mangiato male a Praga”, può funzionare praticamente con tutto, risultato garantito. Che sconvolgente volgarità.

L’equivalente di un clickbait. Solo per questo avrei dovuto smettere di leggere, tanto più che il racconto non mi stava neanche piacendo, pieno com’era di boria e moniti per le masse, oltre che intrinsecamente truffaldino. Era come vedere un profeta vetero-testamentario coperto di pelli di cammello arringare la folla con i link di TzeTze. E usando un tipo di “provocazione” che personalmente non apprezzo mai. Potrei fare un discorso che parte dalle svastiche di Sid Vicious e Siouxsie Sioux e arriva al braccio teso di David Bowie alla stazione di London Victoria, ma non voglio allungare troppo il brodo.

Piuttosto, a proposito del truce baffetto… qualche giorno dopo si è verificata una coincidenza bizzarra, nel senso che ho visto qualcuno che me lo ha ricordato davvero e temo che la somiglianza fosse intenzionale.

Ero con Wolfie al mercato di Natale di Alexander Platz e cercavo testardamente di ignorare la pioggia, che penetrava all’interno del mio anfibio destro attraverso un buco quasi invisibile. Norma base della sopravvivenza: le scarpe vengono prima di tutto il resto, se le scarpe non funzionano il soldato, il civile, il bambino o la vedova non hanno scampo. E neanche io. Nonostante il disagio e un principio di congelamento alle dita del piede mi sono fermata da un italiano che vendeva piccoli capolavori di cioccolata che riproducevano con fedeltà assoluta oggetti di vario tipo, chiavi inglesi, macchinette per il caffè, pinze, tenaglie.

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Ho comprato due apribottiglie con tappi annessi e li ho sgranocchiati con la voracità di un bambino di otto anni, ho offerto a Wolfie un glühwein, ma soprattutto mi sono fermata ad ascoltare un trio strepitoso che cantava canzoni degli anni trenta come “Jawhol, meinen herren” o “Mein gorilla hat ‘ne Villa im Zoo”. Eravamo appena state da “Zum Nußbaum”, l’antica locanda di Nikolai Viertel in cui si mangiano solo piatti della cucina tradizionale berlinese e ci sentivamo molto felici, nonostante il freddo e il cattivo tempo.

Impegnata a digerire le mie aringhe arrosto con contorno di patate tenevo il tempo e applaudivo con convinzione quando ho notato accanto a me, in prima fila, un personaggio inquietante, pettinato esattamente come il famigerato cancelliere della Germania nazista. L’acconciatura era troppofilologica per poter essere casuale e in questo Paese meno che mai. L’uomo, completamente vestito di nero, non aveva l’ombrello e restava in piedi sotto la pioggia senza mostrare fastidio, divertito dai performer. Ho chiesto a Wolfie se condividesse la mia impressione. La condivideva.

Nel frattempo non riuscivo a distogliere lo sguardo e per questo mi è tornato in mente il racconto che avevo letto e ancora una volta ho realizzato quanto fosse profondamente disonesto. Perché in fondo l’icona “pop-artistica” di Hitler è come la merda che ti resta attaccata alle scarpe, una volta che l’hai pestata non va più via, la porti con te, ne senti costantemente il fetore, non te ne liberi.

Ma questo non è affatto un bene.

Perché guardare con insistenza un uomo pettinato come un criminale di guerra è come essere spinti a leggere  con l’inganno qualcosa di brutto e superficiale.

Sgradevole.

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Photo by Gabriel Figueiredo

♠ Colonna sonora: “Mein Gorilla hat ‘ne villa im Zoo”–Max Raabe & Palast Orchester

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=kbJrQhKJ-D0]

Lucia Conti

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Lucia Conti ha collaborato con diverse webzines, curando rubriche di arte, cinema, musica, letteratura e interviste. Per “Il Mitte”, di cui é al momento caporedattrice, ha già intervistato, tra gli altri, due sopravvissuti ad Auschwitz-Birkenau e Buchenwald e ha curato un approfondimento sull’era della DDR, raccogliendo testimonianze di scrittori, giornalisti, operatori radiofonici e musicisti. Ama visitare mostre e chiese in tutta Europa, con una particolare predilezione per Bruegel, Van Gogh e Caravaggio e per l’architettura gotica. Tra i registi apprezza in modo particolare Bergman, Wiene, Kitano, Fellini e Lars von Trier e adora l’ultimo Polanski. Per quanto riguarda la letteratura ha una vera ossessione per Kafka e in particolare per “La metamorfosi”, che ama rileggere a cadenza regolare e che produce su di lei uno stranissimo effetto calmante. Privatamente scrive cose che poi distrugge. Attualmente vive e resiste a Berlino.