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Lettera a Ivan: un atto di amore trans*. Intervista a Emma Segura Calderòn

Emma Segura Calderón è un’artista visiva transfemminista che vive in Costa Rica. Laureatasi in Arte e Comunicazione Visiva presso l’Università Nazionale, si è in seguito specializzandosi in Tessuti e attualmente è attiva in America Latina, Spagna, Cina e Stati Uniti.

Il suo percorso comprende performance, seminari e workshop che esplorano l’intersezione tra corpi, generi e identità con la memoria, il tempo e lo spazio, creando una memoria vivente dell’esistenza trans*.

“Lettera a Ivan” nasce dall’interazione tra Emma e un ragazzo transgender, tra la Costa Rica, l’Italia e la Germania.

Lucia Conti l’ha intervistata per Il Mitte.

Ti ho scoperta come artista attraverso un’opera chiamata “Lettera a Iván”. Puoi spiegare come è stata realizzata e qual è il suo significato?

“Lettera a Ivan” è nata da un bisogno intimo di recuperare e onorare un ricordo molto significativo: il momento in cui ho incontrato Iván, più di 15 anni fa, e il tempo che abbiamo condiviso attraverso la connessione transfrontaliera che internet ci ha permesso di mantenere negli anni, lui tra Italia e Germania e io in Costa Rica.

Incontrare Ivan è stato molto significativo per me. Avevo solo 14 anni e non avevo mai conosciuto un uomo trans, prima. Da bambina, ricordo di aver visto donne trans fuori da una scuola ad Alajuela, la città dove sono cresciuta, e provavo una profonda fascinazione verso di loro. Fin dai miei primi accessi a internet, ho iniziato a vedere donne transgender parlare attraverso l’attivismo, in particolare nel Sud Globale. Tuttavia, in quel momento non avevo ancora interiorizzato o compreso l’esistenza degli uomini trans come una possibilità reale o visibile.

Oggi posso pensare che ci fossero persone, nella mia infanzia, che probabilmente definirei uomini trans e mascolinità trans, ma allora il linguaggio per farlo semplicemente non esisteva, nel mio ambiente. Perciò, l’incontro con Iván è stato un momento fondamentale e lo descrivo come un gesto che ha allargato il mio universo. Provo per lui un grande affetto e mi sembrava importante descrivere quella esperienza perché credo che la memoria si costruisca a partire dalle piccole azioni, quelle micro-politiche che avvengono nella sfera intima, in ciò che spesso rimane fuori dalla storia “ufficiale” o dai discorsi socialmente legittimati.

Per me, lì risiede la potenza della memoria: in quei gesti quotidiani, silenziosi, ma profondamente trasformativi. Penso anche che, per quanto la memoria trans debba essere nutrita e costruita collettivamente, quelle esperienze individuali siano essenziali per tracciare una storia viva che parta da voci individuali. Per questo ho deciso di scrivere una lettera a Iván, raccontando quell’esperienza che abbiamo condiviso.

Ritratto dell’autrice nel suo studio. Emma Segura Calderón, 2025

Nel 2024, questa lettera si è tradotta anche in un oggetto tessile: un pezzo che contiene una serie di immagini legate al ricordo di Iván, un mio ritratto personale, quello che definisco un “ritratto d’autore” che include anche interventi tessili, applicazioni di diversi tessuti, spille da balia, finiture manuali e una domanda ricamata con la macchina da cucire: “Quanti uomini trans* hai conosciuto nella tua infanzia?“.

Questo progetto, in fondo, è un gesto d’amore trans*, un modo di “tessere la memoria” e ringraziare i legami che ci trasformano lungo la vita. La lettera e il pezzo sono nati da uno spazio di scambio artistico realizzato per TEOR/éTica e promosso da Marga Sequeira e La Lolarizo nel 2023, come parte di un processo di ricerca sulle memorie transfrontaliere in Costa Rica e Nicaragua.

Particolare di Lettera a Ivan. Applicazioni tessili e frammenti di memoria. Emma Segura Calderón, 2024

Gli attivisti dicono spesso che “il corpo è politico”. Un corpo trans è doppiamente politico? Quali sfide affronta ancora la comunità, in questo momento?

Considero molto pertinente questa domanda, specialmente in relazione al tempo che mi è servito per rispondere a quest’intervista (l’intervista è rimasta in cantiere qualche mese, ndr). Perché credo che l’esperienza trans, sebbene non voglia posizionarla esclusivamente in uno spazio di sofferenza o difficoltà, affronti molteplici sfide e parlo in particolare del contesto latino-americano e centro-americano.

In questa regione c’è ancora molto da fare in materia di diritti e politiche pubbliche che garantiscano che le nostre vite possano essere vissute alle nostre condizioni. A ciò si aggiunge l’avanzata di movimenti conservatori e di ultradestra, che hanno acquisito sempre maggiore forza, negli ultimi anni. Sebbene in un determinato momento storico si siano percepiti alcuni progressi nei diritti trans, ad esempio nell’istruzione o in rappresentazioni più eque, oggi osserviamo un preoccupante regresso in molte di quelle conquiste, a livello globale.

Questo contesto ci pone davanti a una serie di complessità. Il corpo trans è, effettivamente, un corpo doppiamente politicizzato: per quello che rappresenta di fronte alle norme imposte dal genere binario e per il modo in cui la sua sola esistenza, scomoda, destabilizza o richiede una rilettura dell’ordine sociale.

Una delle sfide più importanti che affrontiamo oggi non è esclusiva delle persone trans, anche se ci attraversa in modo molto specifico. Si tratta dell’urgenza di costruire a partire dalla comprensione profonda della differenza. Di riconoscere che ogni persona ha un’esperienza specifica, incarnata, irripetibile e che questa diversità di traiettorie, modi di nominarsi e di vivere non dovrebbe essere motivo di esclusione, né di imposizione ideologica.

Oggi si percepiscono con forza posizioni che promuovono un’omogeneizzazione del pensiero, perfino all’interno di spazi che si presentano come inclusivi o progressisti. Ma quest’idea che tutti noi dovremmo vivere, sentire, combattere o creare nello stesso modo cancella completamente, come ben sottolineava Lohana Berkins, il valore critico della differenza.

Credo che l’obiettivo sia quello di riuscire a incontrarci collettivamente senza aspettarsi di pensare allo stesso modo. È in quello spazio che possiamo costruire rifugio, accompagnamento, lotte per i diritti, ma anche esperienze di benessere, gioia e piacere. E per raggiungere questo dobbiamo imparare a stare insieme senza cercare costantemente il consenso assoluto, comprendendo che la dissidenza interna è anche una forma di vitalità politica.

Nell’arte, ad esempio, spesso ci si aspetta dai corpi trans un tipo specifico di narrazione: la denuncia, il dolore, la pedagogia. Ma i nostri corpi sono anche desiderio, gioia, contraddizione, piacere, vuoto, esplorazione. Sono anche un archivio vivente.

Ritratto dell’autrice nel suo studio. Emma Segura Calderón, 2025.

Parliamo di te. Qual è la tua storia?

Mi chiamo Emma e Segura è il luogo che abito.

Mi definisco, in sostanza, come niente. Prendo in prestito le parole di Maite Amaya, transgender argentina che ammiro profondamente. Lei diceva: “Io sono essenzialmente nulla, sono carne che mi costruisco”.  E credo che sia proprio lì, in quella possibilità di essere e di continuare ad essere, di non essere la stessa ora, rispetto a un istante fa, che mi interessa rimanere.

Mi identifico anche come artista visiva, ricercatrice indipendente e designer tessile. Sono nata e cresciuta ad Alajuela, una provincia della Costa Rica situata a ovest della Valle Centrale. Questo luogo mi ha insegnato a capire me stessa attraverso una certa non appartenenza: né qui né là, né dentro né fuori. Questo abitare il non-luogo è stato una costante della mia vita.

La mia pratica artistica è stata il percorso per sostenere ed elaborare quella sensazione, alimentata dal mio ambiente, dalle persone che ho conosciuto e dagli spazi che ho abitato. Lavoro partendo da un dato autobiografico, ma non per parlare di me come centro, bensì a partire da me, perché mi interessa occupare quel luogo in cui nessuno parla per me, né io pretendo di parlare per qualcun altro. Lì incontro una potenza politica ed estetica nell’arte: nella sua capacità di generare dispositivi sensibili attraverso il corpo, l’identità, la memoria, il tempo e lo spazio.

Il mio campo di pensiero e di azione è attraversato da una doppia pulsione: una profondamente legata alla vita e al desiderio di benessere e un’altra che è sempre stata molto vicina alla morte. Questa tensione tra rimanere e scomparire mi ha sempre accompagnata. Oggi riesco a nominarla, ma per anni l’ho solo percepita come urgenza, come un bisogno vitale di restare.

Credo che l’arte, e in particolare l’arte tessile, sia stata la mia forma di resistenza. L’ago e il filo mi hanno offerto un ritmo, un altro tempo, un modo di essere. Sono il mio spazio di calma, di apprendimento, di intimità. E anche un modo per restare qui.

Ritratto dell’autrice nel suo studio. Emma Segura Calderón, 2025
Ritratto dell’autrice nel suo studio. Emma Segura Calderón, 2025

Oltre a percepirla, nella tua esperienza, come un atto di resistenza e, in ultima istanza, come strumento di sopravvivenza, che ruolo attribuisci all’arte e come definiresti il tuo lavoro?

La mia idea di arte è cambiata nel tempo. Durante la mia infanzia ho abitato due spazi molto diversi. Da un lato c’era la mia casa, quella in cui sono cresciuta con mia madre, le mie sorelle e mio fratello, un luogo senza ornamenti, senza ciò che convenzionalmente si intende per arte. Dall’altro lato c’era la casa di mia nonna e di mio nonno, molto più abbellita, piena di oggetti che attiravano la mia attenzione. Questa differenza mi ha fatto sorgere molte domande: cos’è l’arte? A chi è destinata? Perché il mio ambiente più prossimo non aveva accesso a queste cose?

Ho sempre avuto interesse per le pratiche artistiche, ma durante la mia infanzia, e fino a quando ho terminato la scuola e sono diventata più adulta, non vi ho avuto accesso per ragioni socio-economiche. Tuttavia, ho trovato un’altra strada: durante la mia infanzia ho vissuto il cristianesimo, fino a quando, a 14 anni, sono stata privata della mia spiritualità. In quel periodo mi sono evoluta come una bambina che si esprimeva attraverso il canto, il teatro, il mimo, la danza, arrivando persino ad insegnare agli altri. Oggi capisco che tutto questo mi ha dato una comprensione profonda della natura performativa del mondo. Io, che sono sempre stata una coccinella, una farfalla con le ali ben aperte, ho potuto esprimermi da un luogo molto sensibile e amorevole, sostenuta dall’affetto di mia madre e di mia nonna.

Queste contraddizioni mi hanno segnata. Mi hanno portato a pensare: se questo non è per me, allora farò tutto il possibile perché lo sia. Non cerco di definire l’arte, perché mi interessa specificamente la sua potenza polifonica. Per me, l’arte è un luogo dove si possono fare cose che nascono da intenzioni personali e collettive, che possono diventare pubbliche, ma non con il desiderio di essere comprese in un unico modo. Non mi interessa cambiare il mondo. Credo che questo impulso sia più legato all’egemonia, al controllo e al potere. Io cerco il contrario: aprire spazi intimi di scambio, dove magari solo due persone si trasformano a vicenda.

Non voglio definire il mio lavoro, ma posso dire che mi interessa profondamente la sua dimensione affettiva. Non mi interessa appendere qualcosa a una parete solo perché venga visto e considerato bello. Mi interessa ciò che attraversa il corpo, i sensi, ciò che disorienta e genera domande.

Mi interessa creare spazi d’incontro, non necessariamente pedagogici, ma orizzontali, dove possiamo imparare gli uni dagli altri, dove la conoscenza si incarna attraverso lo sfregamento, l’interazione, l’ascolto e il sincero tentativo di comprenderci.

Ritratto dell’autrice nel suo studio. Emma Segura Calderón, 2025

Di quale delle tue opere ti senti più orgogliosa?

Non credo di identificarmi con la parola “orgoglio”, ed è qualcosa che faccio fatica a capire sia nella mia vita personale che nella mia pratica artistica, o in quello che intendo come il mio lavoro. La verità è che ci sono altri sentimenti ed emozioni che mi attraversano e che, per me, sono più importanti in ciò che realizzo nella mia ricerca creativa.

Hanno a che fare, soprattutto, con le possibilità di generare reti, di creare scambi affettivi, di favorire incontri e anche con l’appropriazione di spazi che storicamente ci sono stati negati. Sento che con il mio lavoro cerco di aprire quegli interstizi in cui ciò che è sensibile può diventare trincea e abbraccio, allo stesso tempo. Spero che tutto questo possa permettere, a un certo punto, a noi persone trans e a quelle che non si riconoscono nei generi tradizionali, di accedere a un maggiore benessere, nelle nostre vite.

Diciamo che se dovessi parlare di orgoglio, che, ribadisco, non è un termine a cui aderisco, direi che l’arte e il mio lavoro in sé mi hanno permesso di rimanere. E questo, senza alcuna intenzione individualistica, è qualcosa che posso apprezzare e per cui essere profondamente grata, perché implica uno sforzo che ho sostenuto per anni con me stessa: per cercare di realizzare i miei sogni, le mie fantasie, i miei desideri, per permettermi di essere e di continuare ad essere.

Quindi, se dovessi menzionare un’opera specifica, credo che parlerei di un ricamo che ho fatto nel 2020, intitolato: “Lasciar andare la paura”. È un pezzo di tessuto realizzato su un cerchio da ricamo di 5 centimetri di diametro, sul quale ho scritto una frase con i miei capelli: “Lasciar andare la paura”, appunto. Quest’opera è stata un modo per incanalare un’intenzione molto profonda, che ho e ho avuto, su come farmi carico della mia esistenza di fronte al mondo. Credo che quest’azione incarni precisamente la possibilità di permettermi cose, di abitarmi e di esistere qui e ora.

Lasciar andare la paura: Scrivere, pungere o bucare il tessuto. Un avvento di emozioni e pensieri: ansia, aspettativa, paura di sbagliare. La paura di inscrivere significati che ci rendono vulnerabili, cioè la paura di inscriverci, di raccontarci, di renderci evidenti attraverso l’espressione stessa del corpo e dei sensi è paralizzante. Lasciar andare la paura è un prerequisito per creare, individualmente o collettivamente. Superare quella barriera inibitoria immaginaria è necessario per attraversare con l’ago il tessuto, ancora e ancora, per lasciare modelli e simboli incarnati. In altre parole, per lasciarci incarnare tessilmente. – Emma Segura Calderón. Trans*Semiosis: scritture, corpi e tessuti, 2022.

Lasciare andare la paura. Ricamato a mano con i capelli dell’artista. Emma Segura Calderón, 2020
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Ritratto dell’autrice nel suo studio. Emma Segura Calderón, 2025

Come è la scena artistica in cui ti muovi? E come è la società?

La Costa Rica è un paese piccolo in termini di territorio e dimensioni. La scena artistica, o quello che intendiamo come tale, è concentrata principalmente nel centro del Paese, nella capitale: San José.

Credo che ci sia un’atmosfera caratterizzata dall’importante privilegio di una certa stabilità, almeno rispetto ad altri Paesi della regione centroamericana, che ha permesso lo sviluppo di quella che può essere considerata una storia dell’arte costaricana. Questa storia ha accumulato alcuni valori e fattori che la sostengono e la proiettano.

Tuttavia, è importante menzionare che attualmente la Costa Rica è attraversata da politiche statali che hanno profondamente svantaggiato l’arte e la cultura, soprattutto in termini di finanziamento. Nonostante ciò, gli artisti hanno compiuto sforzi molto significativi non solo nel centro, ma anche in altre parti del Paese, per promuovere i loro spazi, sostenere le loro pratiche artistiche e continuare a creare in condizioni davvero avverse. Perché in questo Paese vivere d’arte non è una possibilità, per la stragrande maggioranza delle persone.

Descriverei molte delle pratiche artistiche attuali, non tutte, ma almeno quelle che mi interessano di più, come attraversate da una dimensione che sfiora o tocca pienamente il desiderio di fare, il desiderio di non rimanere nel “posto assegnato”, ma di manifestare altri mondi, altri modi di pensare, di abitare, di scambiare. Pratiche che insistono nel gesto di aprire crepe in ciò che sembra immobile.

Credo, tuttavia, che manchi ancora una connessione tra queste iniziative. Gli spazi indipendenti funzionano come microcosmi che hanno bisogno di riconoscersi a vicenda e di imparare l’importanza di unirsi, di generare collettivamente alternative, di trovare modi sostenibili di vivere e resistere insieme. Di lavorare con l’abbraccio come metodologia.

Particolare della Lettera a Ivan. Cartografia tessile. Emma Segura Calderón, 2024

Come attivista, chi consideri tuoi alleati e chi i tuoi avversari, se ci sono?

Trovo molto difficile pensare in questi termini, con questa prospettiva così binaria della realtà. Credo che nell’esistenza stessa, nel cammino quotidiano, nel movimento costante tra la veglia e il sonno, non sia così semplice parlare con esattezza di alleati o avversari.

Credo che le persone che desidero avere vicino siano quelle in grado di farmi stare bene e con cui io possa fare lo stesso. Persone che possano comprendermi nella mia dimensione umana e che vogliano avvicinarsi in modo disinteressato e, allo stesso tempo, intenzionale e impegnato. Che ci sia reciprocità.

Mi interessa molto posizionare la tenerezza come modo di porsi nel mondo e di rispondere alla violenza. Non una tenerezza ingenua, ma che nasce proprio dall’aver visto molte cose sbagliate e dall’aver deciso di non abitarle, di non volerle riprodurre, di non assumere la violenza come stile di vita, né come risposta.

Credo che la tenerezza sia una forma incarnata di conoscenza. Che nasce, forse nel mio caso, da una speranza che si è diluita, da un fallimento che è ancora presente, ma anche da una ferma intenzione di cercare, almeno in minima parte, di essere coerente con ciò che considero importante. E, soprattutto, di non diventare ciò che mi ha ferito.

Al tempo stesso, so che parlare di tenerezza, e sceglierla, non è sempre possibile. Ci sono contesti in cui la violenza è strutturale, quotidiana, estrema, e dove spesso rispondere con la forza, la rabbia o la rottura è l’unica forma di sopravvivenza. Non lo giudico, né lo metto in dubbio. La mia è una posizione circoscritta, che non pretende di essere universale e che risponde a questo momento della mia vita. È una scelta che faccio per sostenermi, senza negare la legittimità o l’urgenza di altre risposte alla violenza.

Questa mia maniera di abitare il mondo può, a volte, riflettersi nell’arte, ma non si limita a quel perimetro.

Il mio modo di pensare e di essere è profondamente attraversato da questa etica: non cerca di conquistare, né di resistere attraverso la durezza, ma di aprire spazi in cui la tenerezza è anche una forma politica di insistenza.

Ritratto dell’autrice nel suo studio. Emma Segura Calderón, 2025

Come immagini il tuo futuro, se potessi modellarlo in base a come ti senti oggi?

Credo che, in questo momento, ed è qualcosa su cui ho riflettuto spesso, voglio abitare il mio presente. Non mi interessa vivere nel futuro. Voglio poter stare qui, essere grata di quello che ho e anche poterne godere.

Se dovessi pensare a qualcosa che mi interessa promuovere nella mia vita, nel mio modo di stare al mondo e nella mia pratica artistica, sarebbe proprio questa qualità del godimento: l’allegria, ma anche la rabbia, e la tenerezza che menzionavo prima, come possibilità di esistenza. Senza negare né dimenticare la complessità che ci attraversa, che è imminente e quasi impossibile da contrastare.

Mi rifiuto di arrendermi.

In questa ricerca, credo che la gioia di esistere debba essere una costante di fronte alla sottomissione che il mondo e il sistema egemone ci presentano. Sostenere la gioia, anche nelle avversità, può essere un gesto profondamente politico e vitale.

Ritratto dell’autrice nel suo studio. Emma Segura Calderón, 2025

Lasciaci condividendo un messaggio finale con il mondo

Credo che sia complicato. Non so quanto possa essere importante ciò che qualcuno potrebbe ascoltare da me. Tuttavia, come esercizio per dare valore alle mie parole e a ciò che sento — e forse sono parole che sto dicendo a me stessa — penso che sia prezioso riconoscere il percorso che ognuno ha compiuto, quello che ci ha portato dove siamo. Ed è importante prendersi il tempo necessario, avere pazienza, essere gentili con sé stessi per raggiungere ciò a cui si tende e anche per creare spazi di cura, con sé stessi e con gli altri.

Viviamo in tempi in cui tutto sembra esigere un’attenzione costante, una risoluzione immediata e una disponibilità senza sosta. Questa richiesta ininterrotta di risposta a ciò che accade, dentro e fuori di noi, risulta travolgente e insostenibile. Non possiamo occuparci di tutto e pretendere di farlo non solo ci esaurisce, ma erode la capacità di prenderci cura di ciò che è possiamo davvero accogliere.

Questo non significa che stiamo fallendo, ma ci mette di fronte a una serie di complessità che non hanno soluzioni immediate. Sono domande che si aprono e si approfondiscono con il tempo, persino domande esistenziali, per le quali non ritengo necessario, né urgente, trovare una risposta definitiva. Forse non si tratta di rispondere, ma di imparare ad abitarle.

Credo che essere vulnerabili non sia una debolezza. Credo sia importante tenerlo a mente e fare un esercizio consapevole e amorevole con se stessi, per trovare quelle persone e quegli spazi che possono prendersi cura del proprio cuore. E anche, naturalmente, essere responsabili con le persone che ci sono vicine.

Ritratto dell’autrice nel suo studio. Emma Segura Calderón, 2025

Di fronte a questo, penso che un modo di essere, o di resistere, possa trovarsi in esercizi minimi, in gesti attenti, in quelle che potremmo chiamare “micropolitiche”. Non si tratta di soluzioni totali, ma di pratiche circoscritte che ci permettono di concentrarci su ciò che è vivibile, su ciò che richiede ancora attenzione. Potrebbe essere interpretato come un atteggiamento pessimistico di fronte a una realtà logora e senza speranza, ma è quello che c’è. Mantenere la convinzione che stiamo facendo ciò che possiamo è anche un modo per andare avanti.

Per me, questo ha molto a che fare con l’arte. O almeno, con il modo in cui sto vivendo ora e con ciò che voglio cercare per me stessa e per il mio ambiente e che mi porta ad avere questa visione delle cose.

Probabilmente, la mia arte e il mio lavoro degli ultimi anni sono stati molto influenzati da una risposta, forse sottile, ma anche molto diretta, nei confronti della violenza che ci circonda. Tuttavia, credo che, in questo momento, voglio concedermi il riposo, la calma, di muovermi lentamente. E anche se so che questa possibilità non è sempre a portata di mano, oggi ce l’ho e me ne prendo cura. E credo che anche questa sia una posizione politica su cosa voglio sostenere.

Prendermi cura di me stessa e degli altri senza fretta, senza pretese, è anche un modo per insistere con la vita. Infine, non sono pronta a continuare.

Dettaglio di “Lettera a Ivan”. Cartografia tessile. Emma Segura Calderón, 2024.
Lettera scritta a mano. Pennino su carta di lino. Emma Segura Calderón, 2023.

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