“Siete l’Italia che ci manca” – Intervista a Daniele Silvestri

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© Localeuropa. Musica valida per l’espatrio / Screenshot

di Mattia Grigolo

LocalEuropa è un film che non pretende di esserlo realmente. E’ un documentario-tour su una band che non lo è per davvero, un documentario che ride, o quantomeno sorride, di tre uomini rimasti ragazzi troppo a lungo: Max Gazzè, Daniele Silvestri e Niccolò Fabi. LocalEuropa, però, è anche un documento, condivisibile o meno, relativo alla condizione dei nostri connazionali all’estero. Italiani emigrati in Europa alla ricerca di qualcosa. LocalEuropa. Musica valida per l’espatrio.

Il regista Francesco Cordio (già autore de Lo Stato della Follia, interessante inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Sistema Sanitario Nazionale del Senato della Repubblica, per conto della Commissione parlamentare, che documenta le condizioni degli Ospedali Giudiziari Psichiatrici italiani) copre, insieme alla sua troupe, più di novemila chilometri, accompagnando e talvolta inseguendo il furgone rosso dei tre musicisti in quello che è il loro tour europeo e che poi diventa un documentario importante. Perché Cordio decide di intervistare alcuni ragazzi che, insieme alla band, incontra per strada. Localeuropa ne racconta la storie, cui fa da cornice la sbilenca avventura dei tre amici romani, partendo da Colonia e arrivando a Barcellona, passando anche da Berlino e poi, per l’appunto, tornandoci. All’Italian Film Festival Berlin 2015. La manifestazione ha fatto discutere, nel bene e nel male. Dal caos dell’inaugurazione, al successo di Carlo Verdone e a quello degli altri film in programma, uno su tutti Anime Nere, diretto da Francesco Munzi. Un film vero, come non se ne vedevano da un po’, che ha lottato e combattuto soprattutto contro i pregiudizi della gente, mantenendo sempre costante la sua fede, rimanendo un film a tratti semplice, diretto e senza fronzoli.

Localeuropa a sala quasi piena, soprattutto di giovani. Forse perché doveva essere così: in un festival del cinema organizzato da expat, un film pop degli italiani per gli italiani all’estero era d’obbligo. Sarebbe stato sbagliato non proiettarlo. In sala, oltre al regista, ospite anche Daniele Silvestri, accompagnato da moglie e figlio. Mi sono preso un attimo per fargli qualche domanda, seduti su poltroncine da hall di hotel, con davanti uno spritz, una ciotolina di olive, che nessuno dei due ha toccato ed intorno il caos dell’aperitivo veloce tra un film e l’altro.

So che può sembrare una domanda banale, soprattutto se è la prima che ti faccio, ma mi piacerebbe sapere come ti sei sentito nel partecipare a questa piccola avventura, cosa pensi, a conti fatti, del film?

Guarda, in realtà non è così scontato. Le cose che rischiano di risultare autocelebrative sono rischiose. I momenti in cui mostri spudoratamente il tuo mestiere – sapendo di non essere un Lou Reed o un Hendrix – ti esponi con l’incognita di far sembrare quello che stai facendo qualcosa di fine a se stesso. Nel caso di Localeuropa credo che l’abilità maggiore sia stata di Francesco Cordio, capace di trovare una chiave di lettura che, in qualche modo, prescindesse da noi. Tra l’altro lui ci conosce piuttosto bene, quindi si è potuto permettere di giocare con noi e, comunque, saperci prendere nel modo giusto. Lui ha sfruttato il nostro percorso per raccontare altre storie, che in realtà sono molto più interessanti, perché sono vicende in qualche modo nascoste, ma che raccontano una fetta di storia d’Italia. Forse addirittura dell’Europa in generale. In poche parole, Francesco racconta la storia di italiani che hanno lasciato la propria casa per svariati motivi, spesso a seguito di Erasmus, oppure nel passaggio dal mondo dello studio a quello del lavoro. Altre volte legate a scelte difficili che coincidono con delle fughe o comunque all’impossibilità di fare il proprio mestiere in patria o vedere realizzate le proprie aspirazioni. Questo, ovviamente, rende tutto molto più interessante, in questo viaggio in giro per l’Europa, che non può nemmeno prendersi la briga di svelare chissà quali verità. Però tenta di entrare nell’animo di una generazione, perché stiamo parlando di trentenni, qualche volta più giovani oppure più anziani, che sono poi in gran parte il  nostro pubblico, felice, in alcuni casi, di vederci passare dove vivono loro, così lontani da casa.

E invece, per voi tre com’è stato fare questo viaggio?

Per noi è stato un piacere intenso. Noi che abbiamo qualche annetto sulle spalle, facciamo questo mestiere da tanto, ma che in tre e in questa forma così adolescenziale, se vogliamo, e ruspante e vera, ci è tornato indietro, in una forma imprevista, un bisogno di riconoscerci in un pezzo d’Italia. Cosa che non era la nostra ambizione. Però, soprattutto nei primi concerti del tour a Colonia e a Berlino, questa cosa l’abbiamo capita. Quando ci siamo sentiti dire “siete l’Italia che ci manca” gridato dal pubblico, beh, è qualcosa che inorgoglisce e che ti fa pensare, o quantomeno credere, che è un sentimento condiviso da molti. Questa cosa l’abbiamo sentita, inizialmente, come una responsabilità e poi come una prova per affrontare i concerti che avremmo dovuto tenere in Italia.

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© Localeuropa. Musica valida per l’espatrio / Screenshot

Avete sentito una differenza forte tra i concerti che avete fatto in giro per l’Europa e poi quelli in Italia? Non tanto vostra personale, ma più nei confronti del pubblico.

Sì, direi di si. La differenza era inevitabile e sapevamo ci sarebbe stata, anche perché i concerti che abbiamo fatto in Italia erano nei palazzetti, spazi particolarmente grandi. Sul palco eravamo in nove, magari non abbiamo abbondato in effetti speciali, ma devo dire che nella proposta degli arrangiamenti abbiamo fatto il massimo che ci è stato possibile. Poi ripeto, eravamo in spazi di un certo tipo, in cui il contatto non può essere ugualmente diretto, anche se abbiamo fatto di tutto per renderlo il più sincero possibile. In giro per l’Europa eravamo solo noi tre. Ad ogni modo, ognuno di noi aveva già avuto le sue esperienze all’esterno, quindi eravamo abbastanza preparati. Detto questo, quando vedi i tuoi compaesani fuori dall’Italia, davanti al palco, è una cosa speciale. A parte che c’è una sensazione di patriottismo che nel proprio paese non si può percepire, questo in parte è naturale e in parte è molto italiano. Credo sia normale cercare di ritrovarsi in un gruppo, riconoscersi e sentirsi a casa anche fuori e noi ne abbiamo beneficiato.

Io immagino che esista una distanza che si debba necessariamente accorciare nei confronti del pubblico, nel momento in cui un artista sale sul palco. Tu lo hai fatto insieme a Gazzè e Fabi che, oltre che essere tuoi colleghi, sono anche tuoi amici. Questo ti ha aiutato ad accorciarla utleriormente?

Assolutamente sì, per due ragioni. La prima è che io ho sempre cercato di accorciare il più possibile quella distanza. Ne ho fatto quasi un punto di onore, magari in qualche caso può essere stato anche un difetto, ma io non sono fatto per stare su di un piedistallo. Ho sempre cercato di creare una complicità con le persone che vengono ad ascoltarmi, magari anche sputtanandomi, talvolta. Però un conto è farlo quando sei l’unico protagonista, con delle responsabilità di un certo tipo, un conto invece è farlo con la spensieratezza e la leggerezza che ti arrivano dal poterla suddividere, quella responsabilità. Tra l’altro loro sono tre amici veri e questa è un’altra componente non proprio irrilevante. Siamo tre persone che stanno davvero molto bene insieme, con gli strumenti in mano e senza. Quello probabilmente passa. In secondo luogo, l’essere in giro per l’Europa, solo noi tre, senza un batterista – perché nessuno di noi lo è – e riuscire ad avere una batteria lo stesso, oppure nel doversi confrontare con la canzone altrui, che magari hai amato profondamente da spettatore parallelo, da amico, e sapere che devi essere tu a portarla avanti con il tuo strumento, questo ti da la possibilità di metterti in gioco ancora di più. Quindi sì, in Europa le barriere sono state inesistenti.

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© Localeuropa. Musica valida per l’espatrio / Screenshot

Ma insomma, cosa avete pensato nel momento in cui vi siete guardati in faccia e vi siete detti: “La facciamo questa cosa?” 

Ci abbiamo messo un po’, devo dire. Niccolò non lo ricorda più, ma io ho ben stampato nella memoria che fu proprio lui, per la prima volta, a fare questa proposta. Sì ecco, fu una proposta un po’ avvinazzata, però a me personalmente è rimasta nella testa, voglio dire, non è stato come quando ti dici: “Dobbiamo vederci per una pizza.” Era un po’ più seria di così. Comunque ci sono voluti due anni in cui, a giro, ce lo ripetevamo tutti e tre, fino a quando è arrivato un momento, tra l’altro per motivi assolutamente misteriosi, in cui ce lo siamo detti l’ennesima volta e abbiamo capito che era il momento di farlo. Avevamo uno sguardo diverso, era diventato vero. Era una cosa addirittura impellente. Poteva ugualmente cadere nel nulla, perché tre persone come noi, completamente diverse, con la carriera che abbiamo avuto, sono colme di incombenze, responsabilità, contratti, rapporti, famiglie intere che campano sul nostro lavoro, probabilmente. Quindi interrompere quel percorso per due anni non è stato semplice. Lo step successivo è stato prendere la decisione violenta. Ci siamo resi quasi subito conto che non ci interessava monetizzare in fretta, potevamo decidere di salire sul palco tutti e tre insieme nel giro di due mesi, fare venti date e magari riempire i portafogli. Fine. Invece abbiamo deciso di chiuderci in sala prove e prendere gli strumenti in mano. Oltretutto senza dirlo a nessuno per molto tempo. Volevamo essere sicuri che non fosse solo un’idea vaga. Rivendico con orgoglio il percorso che abbiamo fatto per arrivare a questi tour.